Antonio Ferraro, “La mia RAI”, o meglio ancora: “La Rai che verrà e che vorrei sempre più forte e internazionale”
Antonio Ferraro è stato uno dei manager televisivi più significativi e innovativi degli anni’90, e oggi si candida a far parte del nuovo CDA della RAI. Lo fa naturalmente forte della sua straordinaria esperienza televisiva nel cuore della TV di Stato. PPN NEWS lo ha intervistato.
(Prima Pagina News)
Sabato 05 Giugno 2021
Roma - 05 giu 2021 (Prima Pagina News)
Antonio Ferraro è stato uno dei manager televisivi più significativi e innovativi degli anni’90, e oggi si candida a far parte del nuovo CDA della RAI. Lo fa naturalmente forte della sua straordinaria esperienza televisiva nel cuore della TV di Stato. PPN NEWS lo ha intervistato.

Negli anni ’90 la Rai era rimasta ancorata a modalità e a linguaggi da monopolio e stava pesantemente perdendo colpi, con l’arrivo di un concorrente che mostrava di saper intercettare molto meglio i gusti del pubblico. Allora lavoravo nella Raidue di Sodano e mi occupavo dell’acquisizione e dell’offerta cinematografica; il mio compito era duplice: da un lato contrarre la concorrenza e, dall’altro, farlo con il budget limitato della seconda rete Rai.

Fu così che scoprimmo il mondo – sino ad allora sostanzialmente inesplorato – dei Tv-movie: film americani nati per la programmazione televisiva, che – se ben selezionati – potevano (proprio per la loro natura di prodotto televisivo) reggere il confronto con titoli cinematografici paludatissimi e costosissimi. Parallelamente mi avventurai al recupero di garbate commedie italiane e, soprattutto, dei cosiddetti “musicarelli” (sino ad allora snobbati dai miei seriosi colleghi).

-Qualche titolo? Qualche esempio concreto?

“Nel segno del giallo” (tv movie polizieschi che il sabato spesso vincevano la serata con il 25/30% di ascolti), “I difficili mondi delle donne”, in collaborazione con il mio collega ed amico Carlo Macchitella (film di impegno civile ma anche di efficacia narrativa che il mercoledì sera reggevano efficacemente il confronto con le grandi partite serali), gli action del martedì (avventurosi thriller con i nuovi divi delle arti marziali, quali Jean-Claude Van Damme e Steven Seagal, anche questi con ascolti record) e quelli del giovedì (con i nuovi mini-divi del genere: Dolph – “ti spiezzo in due!”- Lundgren, Cynthia Rothrock, Lorenzo Lamas).

-Fu davvero un successo?

Con mezzi limitati, una grande pervicacia lavorativa e, devo dirlo, una buona conoscenza dell’audiovisivo riuscimmo a far uscire in quel periodo la Rai dalle secche di una programmazione ingessata da anni di comodo monopolio.

-Erano gli anni in cui RAI propose in prima serata tre puntate di Beautiful. È vero, è stato un successo, ma non crede che questo alla fine abbia anche contribuito ad abbassare la qualità della programmazione televisiva?

Potrei risponderti con la frase di Angelo Guglielmi quando i Professori, appena arrivati, bloccarono la programmazione del thriller del sabato: “Stanno togliendo una delle poche proposte culturali della Rai” ma preferisco ricordare come l’aver illuminato con grandi ascolti la Rete2 ci consentì di avere l’unica proposta di teatro in tv di quegli anni con “Palcoscenico” e una delle pochissime rassegne di film d’essai con “Il Belcinema”.

-Qual era la logica di questa scelta?

In televisione – come in tante altre attività intellettuali – tutto regge se riesci ad affezionare l’audience e a guadagnarne la fiducia. Puoi anche azzardare proposte meno immediatamente di richiamo; ma l’importante è che tutto sia fatto senza spocchia pedagogica e nel rispetto assoluto dell’unico fruitore del tuo lavoro: il pubblico.

 

-È vero che alla fine questi prodotti erano stati poi usati anche dalle principali reti europee ed erano diventati in tutta Europa “locomotive” di vendita di film meno commerciali per molte televisioni?

Le dico solo che l’Italia1 di Freccero aveva ripreso – con un discreto riscontro ma con numeri non certo paragonabili ai nostri – la nostra programmazione ma, ben presto anche le principali emittenti europee avevano dato spazio ai tv-movie, in particolare a quelli polizieschi e altrettanto fecero le loro società di commercializzazione. Ricordo con piacere quando il direttore commerciale della potente ZDF tedesca – in seguito ad un cambio politico nella gestione Rai che mi destinò ad altro ruolo – mi disse: “Come! Te ne vai proprio adesso che tutti stiamo seguendo la tua strada?”.  Dobbiamo sempre ricordarcelo: soprattutto nella comunicazione – già allora ma adesso assai di più – nessuno è un’isola e gli scambi sono essenziali.

-Parliamo della Rai del post covid, come la vedi?

Francamente credo che sia indispensabile ripensare con saggezza alla sua “mission”. Da qualche tempo vedo sottolineata una situazione di sofferenza economica - nonostante la scelta di mettere il canone Rai all’interno del bollettino di pagamento dell’energia elettrica - aggravata dal fatto che la pandemia e il lockdown non favoriscono certo le indispensabili risorse pubblicitarie ma, soprattutto, le nuove fruizioni di audiovisivo stanno sempre più marginalizzando la vecchia tv generalista. Come spesso accade quando una modalità culturale è in declino, le sue realizzazioni si deteriorano anche a fronte di standard tradizionali. Fatte salve le esigenze – con inevitabili sacrifici di ascolti – di informare sulla pandemia, i programmi appaiono spesso invecchiati, stentati, autoreferenziali e, almeno per la Rai, tutto il palinsesto sembra ruotare intorno ad una fiction, spesso di buona fattura ma culturalmente monocorde.

Lei per un momento sembrò pronto per diventare Direttore di Rai Fiction, poi la cosa però non andò in porto…

Io ricordo solo di aver vissuto quella candidatura come un grande privilegio. Ricordo i riconoscimenti e gli incoraggiamenti che mi vennero da alcuni grandi personaggi della televisione di allora, Minoli, Sodano, Munafò, Silva e nientemeno che Ettore Bernabei. Ricordo anche che lo stesso Beppe Giulietti – allora fondatore dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, – fece uscire un pezzo su L’Unità nel quale mi faceva credito di grande competenza.

-Al suo posto arrivò Agostino Saccà?

Ma era giusto che così fosse. Non potevo certo recriminare, né sentirmi sminuito se Agostino Saccà, allora Direttore Generale della Rai, che aveva con forza sostenuto la mia candidatura, dovette poi accettare lui l’incarico, dopo essere stato sostituito come Direttore Generale.

-Oggi le chiedo, al posto di Sacca cosa avrebbe fatto Ferraro al suo posto?

Francamente non posso dire oggi se avrei fatto scelte diverse da quelle di Saccà e dei suoi successori, che hanno fatto e stanno facendo un ottimo lavoro, ma credo che avrei mantenuto fede alla mia caratteristica di tecnico attento al prodotto, cresciuto alla scuola dell’azienda Bernabei e di Agnes, altro grande Direttore oggi ingiustamente dimenticato, e che si sono sempre battuti per il pluralismo delle idee e il rispetto dell’intero panorama produttivo ed autoriale. Questo, negli ultimi tempi, è un po’ mancato.  

-Veniamo all’oggi, che quadro abbiamo difronte a noi?

Mi pare sia abbastanza evidente che la Rai si trova in una situazione assai simile a quella degli anni ’90: alla necessità cioè di affrontare una agguerritissima concorrenza con risorse limitate da usare con grande capacità professionale. Ho detto la Rai, ma forse sarebbe più giusto parlare di sistema Paese. Oggi la Rai da sola non può farcela a competere con i grandi network multinazionali. Ha bisogno di un piano di innovazioni della rete che la mettano al passo almeno con le altri grandi realtà europee, e per questo deve avere un gruppo dirigente autorevole e coeso, che lavori a questo grande progetto di rinascita.

-E tutto questo basterà?

Una cosa va detta con estrema chiarezza. La RAI, mai come ora, deve essere al centro di un sistema che allinei tutta la politica della comunicazione. Penso al Mibact, penso a Cinecittà, a cui è stata affidata la missione di sviluppare progetti per i nuovi media, ma che da sola però non può farcela. Penso al Ministero per l’Economia, e tutto questo nella prospettiva di creare alleanze europee nella quali ogni Paese partecipi con la dignità e la forza delle proprie capacità imprenditoriali e tradizioni culturali.

Non le pare essere un progetto eccessivamente ambizioso per un’azienda che vive una pesante crisi finanziaria.

Vede, in realtà il problema non è di spendere di più, ma di spendere meglio. Capita a tutti noi, come telespettatori di vedere trasmissioni - spesso di non straordinario interesse e con esiti di audience modesti – con conduzioni ed ospiti costosissimi o con scenografie fastose o semplicemente ripetitive. Mettendo insieme invece, con un progetto editoriale ragionato, le risorse e mettendo in campo una sana politica di accordi europei, non parlo delle pur utili coproduzioni ma di un vero piano di allineamento delle grandi aziende televisive europee ai nuovi standard, allora sarà possibile per l’Italia uscire da quello che, erroneamente, sembra venir percepito come un destino di marginalità.

-Qui entra in ballo il tema dei nuovo linguaggi, non crede?

Questo certamente si. Dobbiamo renderci conto che nuovi media significano anche linguaggi nuovi. Possiamo parlare quanto vogliano dei buoni ascolti della fiction Rai ma dobbiamo capire che il mercato, e i segnali già si avvertono per chi li vuol sentire, non sta andando nella direzione di contenuti tradizionali e politicamente correttissimi e rassicuranti.

-Direttore ci faccia per favore un esempio concreto

Io credo che dovremo guardare con attenzione a prodotti come La regina degli scacchi, nella quale il linguaggio è tutto: pochissimi spettatori, probabilmente, erano potenzialmente interessati alle vicende di una scacchista alcolizzata e asociale ma la grande efficacia del racconto ha avvinto milioni spettatori, che hanno seguito sequenze incentrate su uno delle attività agonistiche meno spettacolari al mondo. Insomma, mi permetta di usare qui uno slogan: la Rai dovrà puntare sempre più su Raiplay, che non sul chiaro.

-Direttore, ma quanto un progetto del genere può inficiare i già scarsi investimenti della televisione nella cultura ed, in particolare nel cinema e nel teatro?

La risposta è nei fatti. Le reti dedicate saranno molto più centrali ed inevitabilmente tutto il comparto produttivo (cinema, teatro, documentari, cartoni animati) ne trarrà vantaggio. Non dimentichiamo che attualmente i dirigenti delle reti “minori” debbono fare i conti con risorse limitatissime, potendo spesso solo riproporre, come le vecchie sale di terza visione, titoli visti e stravisti.

-Lei invece a cosa pensa?

I generi di cui amo parlare sono centralissimi nelle proposte di Sky, Netflix, Amazon e ci sarà sempre più bisogno di differenziare per platee sempre più vaste. Quello che ora è considerato “di nicchia” sarà fruito comunque da milioni di spettatori. Mi creda, un’occasione unica non solo per il cinema e la fiction, che dovranno adeguarsi, comunque, alle nuove estetiche, ma anche, ad esempio, per il teatro e la musica. Sa cosa penso? Che sarà non solo doveroso civilmente ma anche conveniente, oltre a valorizzare il nostro grande patrimonio storico-culturale, puntare sui nuovi talenti e i nostri autori contemporanei, molti dei quali – in qualche modo – nascono già internazionali.

-Lei oggi si candida a far parte del nuovo CDA della Rai, con quale progetto?

In realtà, da quando è cominciata questa prassi delle autocandidature io ho sempre partecipato. Non sono così ingenuo da pensare che – almeno sino ad ora – qualcuno esaminasse con animo sgombro i vari c.v. ma penso, da cittadino con competenze decennali nel settore, che sia giusto partecipare, quantomeno per segnare l’adesione ad un metodo, almeno nella forma, meritocratico. Vedo che ogni volta validi colleghi hanno fatto lo stesso ragionamento e sono certo che molti di loro, come me, sono pronti a dare sostegno, anche senza ruoli o medagliette, ad un’azienda che abbiamo contribuito a fare grande e che vorremmo veder tornare al ruolo centrale al quale può (e deve) ambire.

-In bocca al lupo Direttore.

Crepi


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