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Ieratica, melliflua, maternalista, la De Filippi conclude su Canale 5 l’ennesima stagione di “Uomini e Donne”, uno dei suoi format di punta. Milioni di telespettatori da più di vent’anni oramai lo guardano ogni sacrosanto pomeriggio, prendendo per vere le sottili manipolazioni dei “buoni sentimenti” che incastrano in un unico inossidabile e nocivo ingranaggio, da un lato, autori e conduttrice che devono portare a casa l’indice di ascolto più alto, la felicità dei broadcaster e degli sponsor, innescare la partecipazione passiva e la credulità dei tanti che vedono nel programma un tabernacolo di verità e autenticità e non un management delle provocazioni e delle pose; e, dall’altro lato, gli stessi tronisti e corteggiatori sempre più al centro di teatrini nefasti, auto-svendite sui social, disintimizzazioni estreme, quando non di esplicite messinscene per “durare” di più davanti alle telecamere. Altro che amori trepidanti, “esterne” romantiche e “voglio viverti”…
E non va meglio ai tanti pseudo-talk politici che della realtà ci fanno cogliere solo gli aspetti più acrimoniosi, fosforescenti o allucinatori, nonostante la bieca e vuota retorica dello spot di “Non è L’Arena” veda nel centro di Roma, ripreso dai droni, un impettito Giletti che ci vorrebbe ammannire “fatti, non opinioni”. E non sono “opinioni” anche le narrazioni insistite, il tono di voce, il modo di guardare nell’obbiettivo per spremere la fedeltà dell’ascoltatore, l’accanirsi fino alla morte su alcuni “fatti” di cronaca che sono voyeuristici e ultra-assorbenti rispetto alle capacità attenzionali di chi è seduto davanti allo schermo, mentre se ne tacciono tanti altri di ricaduta sociale sicuramente migliore, lo spacciare tagli investigativi dentro pentoloni di iconografie precotte, il farcire certi avvenimenti delle “testimonianze esclusive” di gente che tracima di “io presumo”, “mi sembrava”, “io credo”, “secondo me” quando già l’accusato di turno, con nome e cognome, è catechizzato come mostro e Barbablù e senza che la macchina della giustizia abbia ancora mosso i primi passi?
Confidiamo e adoriamo un linguaggio cariato, asfissiante, inquinante, banalizzato e pirotecnico, senza più relazioni con le cose e con visioni trasformatrici dell’esistente, puro catino di immanenza, pura Megafonia, come dice la filosofa Lorenza Ronzano, che disturba, aduggia, fa da stereofonia craccante nelle nostre coscienze vilipese.
“Inselvatichita, priva di limiti, nella giungla, senza nessuno che la contenga, senza nessuno che le presti ascolto, la parola è grido, comunicazione primaria, come quando si dice “mi fa male”, “ho fame”, “ho paura”, “muoio”. Trasmissione, dunque, di un messaggio che non apporta nulla di quanto dice.
Parole al servizio della mera interazione umana, parole-strumento che non aprono il mondo”. Splendidamente icastico, eppur soave e composto, il filosofo spagnolo Daniel Gamper in questo suo “Le parole migliori” (Treccani), dove siamo mossi ad apprezzare tutta la partitura musicale e vibratile del parlare, non più solo rete di significati e grammatica dell’esperire, ma anche tonalità esistenziale, cromatismo dell’agire, enciclopedia dell’immaginare, ondeggiamento emozionale. Senza tutto questo arcobaleno di sfumature e tinte che portano i suoni attraverso cui nominiamo e conosciamo il mondo e gli affetti ad essere tangenti a un accorto silenzio, a un premuroso auto-controllo, a correggere le farneticazioni cui aderiamo con troppa sicumera, a stemperare le dissonanze del rumore di fondo, del fastidio acustico a cui l’intero palcoscenico audiovisivo si è ridotto, non potremmo liberarne le potenzialità trascendenti, simboliche, anti-mercantili, dis-utili, e dunque gioiose ed ebbre di bellezza. Ma per fare questo, dice Gamper, serve una “cattività dell’umano”, che assomiglia alle gabbie dietro le quali ammiriamo, addomesticate, la maestà di belve feroci che altrimenti ci sbranerebbero, ovvero: “Senza un contesto che gli dia senso, senza una comunità in cui svilupparsi, senza un orizzonte di aspettative condiviso, non c’è vera comunicazione”. Diversamente, sprofondiamo nel fango di “immagini assordanti e silenziose, che stimolano il consumo e ci mantengono sulla superficie”, scivoliamo “verso una dispersione che svuota l’anima e le tasche allo stesso ritmo”. Davvero queste esternazioni di Gamper non le associamo ai leader, maschi e femmine alla pari, dei palinsesti televisivi giornalieri, che si parli di grandifratelli o di seriosissime news o “inchieste”?
Dobbiamo imparare a tacere, a praticare civismo e moderazione nella manifestazione del nostro pensiero, a meditare prima di profferire verbo, ad asciugare quella “infossicazione”, intossicazione da inflazione di segni, click, like, app, squillini, jingle, download, che fa da gommosa rotondità del nostro tele-universo, da monossido anticulturale. Ecco, invece, le stimmate di una parola e di un reale dissanguati, emaciati, rinsecchiti come in una osteoporosi semantica, in perenne ridicola rianimazione attraverso la termodinamica dello Spettacolo che ci depriva di una parola significante e antropizzante, spiazzante e concludente. Come nel moto ciclonico della twister-twitter-mania che ci fa essere tutt’uno non col linguaggio, ma con i suoi corpuscoli più slacciati e ausiliari.
Tutto viene solo fotocomposto nella brevità dello spasimo da instillare nello spettatore, e la lungaggine di alcune trattazioni non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con la meticolosità costruttiva di congetture razionali, ascolto di controparti, indagini obiettive, inquadramenti equidistanti ed eticamente improntati dei fatti presi in considerazione, che, anzi, assomigliano più allo svilupparsi di un feuilleton o di uno sceneggiato struggente che non a quel “servizio pubblico” di cui tanti, troppi - la D’Urso soprattutto, e indebitamente - si riempiono la bocca.
Se tutto questo poi lo viviamo in chiave Covid, non possiamo che trovare una vera piccola bibbia dell’igiene del ragionamento e della ricerca applicata nel libro di Giovanni Boniolo “Il virus dell’idiozia” (Mimesis) che – vivaddio – usa espressioni tranchant e di dileggio quasi psichiatrico (ego “distorto”, “malato”, “ipertrofico”) per cercare di mitigare quella energia tossica e maligna che alberga in tanti dilettanti, celebrity e beceri opinionisti, veri dispensatori del nulla e di particolato subculturale che, anche in corrispondenza di un guaio serio come il Corona, hanno saputo in tv solo attizzare paure e paranoie, pensare al loro grado di popolarità, rimestare nel già sentito per pura distorsione parolaia, per pura inclinazione catalizzante e autoreferenziale. Spaziando con ottima capacità divulgativa fra storia della scienza, sociologia della comunicazione e critica sociale, Boniolo ritesse i fili di quella faticosa auto-disciplina, personale e collettiva, che porta (che dovrebbe ri-portare) ad una vera auctoritas nel dire, nel fare politica, nella prassi medica e curativa, nella guerra senza quartiere ai sensazionalismi e alle cattive pratiche autoassolutorie di scienziati rampanti e smistatori del traffico vaniloquente di social e salotti televisivi. La definizione istituzionale di ruoli, la cuccia delle riconoscenze e del rispetto sono troppo semplificative rispetto alla potenza in atto dell'evento che è sempre invasivo, inverosimile, inverecondo. E ci collega senza scampo alla condizione umana, là dove, dice Gamper agiscono quelle nuove fertili soggettività discorsive che “cercano di trovare la parola più adeguata con cui sottolineare le loro convinzioni, mentre al tempo stesso le indeboliscono mostrando disponibilità all’ascolto”.