Open Arms, se Matteo Salvini ha ragione, a processo rischia ora di andarci anche il premier Giuseppe Conte

In un pezzo a sua firma su Il Riformista di Piero Sansonetti questa mattina il Presidente dell’Unione delle Camere Penali d’Italia Gian Domenico Caiazza spiega con assoluta lucidità, e con la severità del grande giurista quale egli è, che nella storia dell “Open Arms” Matteo Salvini ha tutte le ragioni del mondo per gridare la sua innocenza rispetto al processo penale che ora dovrà affrontare, e soprattutto avverte che il rischio alla fine sarà un altro, e cioè che a essere chiamato in causa insieme a Matteo Salvini potrebbe anche esserci il premier Giuseppe Conte e il Governo nella sua interezza.

di Pino Nano
Sabato 01 Agosto 2020
Roma - 01 ago 2020 (Prima Pagina News)

In un pezzo a sua firma su Il Riformista di Piero Sansonetti questa mattina il Presidente dell’Unione delle Camere Penali d’Italia Gian Domenico Caiazza spiega con assoluta lucidità, e con la severità del grande giurista quale egli è, che nella storia dell “Open Arms” Matteo Salvini ha tutte le ragioni del mondo per gridare la sua innocenza rispetto al processo penale che ora dovrà affrontare, e soprattutto avverte che il rischio alla fine sarà un altro, e cioè che a essere chiamato in causa insieme a Matteo Salvini potrebbe anche esserci il premier Giuseppe Conte e il Governo nella sua interezza.

La premessa che Gian Domenico Caiazza usa per spiegare il paradosso del processo Salvini-Open Arms non lascia dubbi di alcun genere: “Sarà dunque l’autorità giudiziaria – osserva il leader dei penalisti italiani- a stabilire se avere lasciato dei poveri disgraziati, gli ultimi della Terra, a cuocere al sole per giorni e giorni in nome - nientedimeno - della difesa dei confini nazionali, sia configurabile come un sequestro di persona. Non conosco gli atti, dunque non mi pronuncio. Ma che di questo fatto sia chiamato a rispondere il solo Matteo Salvini, pare a me una anomalia non altrimenti spiegabile che in termini di condizionamento politico di questa iniziativa giudiziaria”. Gian Domenico Caiazza ricorda a chi eventualmente lo ha dimenticato che “Occorre si sappia che nel nostro diritto penale vige un principio generale, che proverò a spiegare nel modo più semplice. Risponde di un reato non solo chi lo ha materialmente commesso, ma chiunque abbia dato un apprezzabile contributo causale alla sua realizzazione”. L’esempio concreto è di una semplicità quasi disarmante: “Di quella rapina a mano armata non risponderanno solo i due banditi che entrano, travisati ed armati, in banca, costringendo il cassiere a tirare fuori i soldi dalla cassaforte. Ma anche il complice che li attende fuori in macchina, e che magari non ha mai preso in mano una pistola in vita sua; l’impiegato infedele che ha fornito tutte le indicazioni utili; la guardia giurata che avrebbe potuto e dovuto intervenire ma non lo ha fatto; il proprietario dell’appartamento dove nascondere la refurtiva, e così via”. Per il Presidente dell’Unione delle Camere Penali “Si tratta di un principio insidioso ed onnivoro, che nella quotidiana realtà giudiziaria tende ad espandersi in modo abnorme, inglobando spesso e volentieri nel concorso di persone condotte diverse e meno gravi (si pensi al favoreggiamento), o del tutto prive di rilievo penale”. C’è di più, e questo il prof. Caiazza lo spiega ancora meglio: “Negli ultimi decenni ha poi trovato una anomala espansione il tema – pericolosissimo - del contributo causale “morale” alla commissione del reato. Non solo gli Uffici di Procura ma anche i Giudici nelle loro sentenze usano ed abusano della istigazione e perfino del “rafforzamento” della altrui intenzione illecita per coinvolgere e punire a titolo di concorso soggetti estranei alla materiale commissione del fatto”. Scontata la domanda: “Ora mi chiedo: che fine ha fatto tutto questo armamentario dottrinale e giurisprudenziale, con il quale noi avvocati da sempre siamo chiamati quotidianamente a confrontarci con durezza nelle aule giudiziarie, nella vicenda (anzi, nelle vicende) relative alle gesta del ministro degli Interni Matteo Salvini?” La domanda è tanto più legittima se si consideri che non si contesta al leader della lega una condotta “privata”, ma un suo atto di Governo. Dice Caiazza: “Quei disgraziati sono rimasti chiusi sulla Open Arms per una decisione politica ed amministrativa adottata da Salvini nell’esercizio dei suoi poteri di Ministro degli Interni, non per una capricciosa volontà illecita adottata, tra un mojito e l’altro, dalla leggendaria spiaggia di Milano Marittima”. E qui, infine la chiave di volta di questa vicenda che Gian Domenico Caiazza firma in prima persona: “Ora, io non conosco nel dettaglio gli specifici poteri del ministro degli Interni sull’accesso ai porti che mettano in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica. Escludo però con certezza che essi siano esclusivi. Escludo cioè che il ministro degli Interni possa adottarli perfino contro la volontà del Governo cui egli appartiene. È del tutto ovvio che se il Consiglio dei ministri ed il suo presidente non condividono le determinazioni adottate dal ministro Salvini, percependone addirittura la possibile illiceità penale, o quest’ultimo le ritira, o un minuto dopo egli è fuori da quel Governo”. Non può che seguirne una provocazione giuridica forte: “Che fine ha fatto, dalle parti della Procura di Agrigento, il secondo comma dell’art. 40 del codice penale (“Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”)? E tutta la giurisprudenza sul concorso morale, che in Sicilia ha mietuto vittime in numero di gran lunga superiore al Covid?” Come non condividere le tesi del leader dei penalisti italiani? “Eppure – conclude l’analisi del giurista- ricordiamo dichiarazioni entusiastiche di ministri di quel Governo che istigavano e rafforzavano - o no? – le intenzioni asseritamente criminose di Matteo Salvini. Puff!, tutto dissolto come neve al sole. Questo doveva essere, a mio modesto avviso, l’unico tema di discussione in Parlamento. Perché se non c’è una risposta plausibile a quelle due domande, l’iniziativa giudiziaria reca già in sé le stimmate di un eclatante condizionamento politico. Non necessariamente ispirato, sia ben chiaro, da una avversione culturale o ideologica ad un uomo politico. Anche solo ragionamenti di opportunità, volti a non coinvolgere in una accusa così grave l’intera compagine di Governo, bastano ed avanzano per segnare l’iscrizione monopersonale di Salvini nel registro degli indagati e la conseguente richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi soli confronti con il marchio del fumus persecutionis”. Invece, abbiamo dovuto ascoltare inutili sproloqui sull’interesse pubblico di un atto di Governo, “e addirittura sulla difesa dei confini nazionali - ma suvvia! - dalla invasione di cento sventurati allo stremo delle forze. Aveva proprio ragione Ennio Flaiano: la situazione è grave, ma non è seria”.


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