Turismo e Beni Culturali, Leo Tarasco: “L’Italia ha i numeri per essere prima in Europa”

E’ mai immaginabile un’Agenzia per la valorizzazione economica del patrimonio culturale italiano? Dall’analisi che ne fa qui per Ppn News il Presidente della Società italiana per l’Ingegneria Culturale Antonio Leo Tarasco, ci sono tutte le condizioni ideali per farlo.

(Prima Pagina News)
Mercoledì 10 Novembre 2021
Roma - 10 nov 2021 (Prima Pagina News)

E’ mai immaginabile un’Agenzia per la valorizzazione economica del patrimonio culturale italiano? Dall’analisi che ne fa qui per Ppn News il Presidente della Società italiana per l’Ingegneria Culturale Antonio Leo Tarasco, ci sono tutte le condizioni ideali per farlo.

La gestione del patrimonio culturale italiano rappresenta un problema ancora irrisolto. Edulcorato dalle immagini dei grandi della Terra che sorridono davanti alla Fontana di Trevi o in visita ai Fori imperiali, i numeri svelano una realtà fatta di improduttività economica e sottoutilizzazione culturale.

È un problema trasversale ai livelli istituzionali. Infatti, dei 4.908 tra musei, monumenti e aree archeologiche censiti dall’Istat nel 2018, all’attuale Ministero della cultura appartiene solo il 9,4%, cioè 460 siti rispetto al totale mentre il 90,6% appartiene a soggetti non statali. Tra questi, i maggiori detentori sono i Comuni che, se è vero che posseggono quasi 5 cinque volte di quello posseduto dallo Stato (ben il 41,4%), sono spesso privi della minima capacità di gestione, sia in termini di personale che di competenze, nonostante non difettino di impegno e volontà.

La diffusione è assai capillare: in un comune italiano su tre è presente almeno una struttura a carattere museale (ve ne è una ogni 50 Kmq e una ogni 6 mila abitanti). Il problema è acuito dal fatto che il 16,1% delle strutture museali è presente in comuni con meno di 2 mila abitanti, alcuni dei quali arrivano a contare sino a 5-6 strutture, mentre il 30% è localizzato in comuni da 2 mila a 10 mila abitanti.

Come possono i Comuni italiani, soprattutto medio-piccoli, gestire tutte queste strutture espositive? Con quali competenze professionali? E con quali costi e ricavi finanziari? Si spiega, tra l’altro, perché con queste premesse il federalismo demaniale nel settore dei beni culturali non sia mai realmente decollato e, quando si è concretizzato, ha riguardato beni di scarsa rilevanza.

Le problematiche sono diverse ma ugualmente presenti anche nei siti statali: basti pensare che - come calcolato nel mio Diritto e gestione del patrimonio culturale (Laterza) - solo nel 2017, il 68% dei visitatori dei siti statali si è diretto verso il 2,28% dei musei e delle aree archeologiche con la conseguenza che il 61% degli incassi totali da biglietteria sono stati generati solo dall’1% dei siti statali. Ciò significa che quasi il 97 per cento dei musei e delle aree archeologiche statali è scarsamente visitato (e rende pochissimo anche in termini finanziari). Inoltre, quando presenti, i ricavi sono rappresentati quasi esclusivamente dalla biglietteria che costituisce mediamente il 90% degli introiti complessivi dei siti statali, mentre arrancano ancora sponsorizzazioni, donazioni, attività commerciali e concessioni d’uso.

Che fare?

Data l’imponenza del nostro patrimonio culturale e la gravità dei problemi, l’unica soluzione è recidere il nodo. Come? Concependo l’offerta dei beni culturali come qualsiasi altro servizio pubblico a rilevanza economica; in tal modo si potrebbe separare definitivamente la proprietà dei beni culturali rispetto alla loro gestione. Seguendo questa logica, si potrebbe affidare ad un’Agenzia la missione di valorizzazione sia culturale che economica, in linea con obiettivi previamente definiti dallo Stato.

Il modello dell’agenzia sintetizzerebbe bene diverse esigenze: la distinzione tra indirizzo politico e gestione operativa; la specializzazione tecnica della funzione della gestione (da affidare, perciò, non alle tradizionali professioni ma a manager del settore); la distinzione tra funzione della tutela (necessariamente riservata allo Stato) e gestione dei beni culturali; il mantenimento della gestione in ambito pubblico (salva successiva esternalizzazione a terzi); la misurazione oggettiva degli obiettivi raggiunti da rilevare non solo con il criterio del numero di mostre inaugurate ma anche con quello dei ricavi finanziari e dei fondi pubblici effettivamente spesi.

L’altro grande problema italiano è infatti quello della redditività. In molti Paesi del mondo occidentale la gestione dei beni culturali, per quanto formalmente non profit, è ispirata a criteri aziendalistici e rende bene. Se in Italia, ad esempio, dalla gestione di circa 460 strutture espositive nel 2019 è stato ricavato (al netto) poco meno di € 220 milioni (cifra comunque nettamente superiore rispetto agli anni precedenti), in Gran Bretagna, dalla gestione di soli 17 musei sono stati ricavati oltre 315 milioni di sterline; in Francia, dalla sola concessione del marchio “Louvre” a favore degli Emirati arabi uniti, per il Louvre di Abu Dhabi, sono stati pagati ben 400 milioni di euro e, se si computa l’intera operazione della sede araba del Louvre, i ricavi, per i francesi, sono stati di circa 1 miliardo di euro (spalmati in 30 anni).

Un autentico paradosso se si pensa al valore del nostro patrimonio culturale di valore certamente superiore di almeno 10 volte rispetto ai 223 miliardi stimati dal Mef. Tutto ciò lascia ben comprendere come, se allargassimo lo sguardo all’intero patrimonio culturale pubblico (includendovi enti locali, università), e incrementassimo la capacità redditiva e, quindi, il tasso di automantenimento dei diversi istituti e luoghi della cultura, l’Italia potrebbe vivere di rendita, senza ridurre spese pubbliche o incrementare le tasse. Perché non farlo?

Antonio Leo Tarasco
Presidente della Società Italiana per l'Ingegneria Culturale

 

 

 

 


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