Il Papa in Mongolia, nella terra dove un sacerdote calabrese 20 anni fa costruì un forno per il pane.
Il viaggio di Papa Francesco nel cuore della Mongolia, più precisamente a Shuwuu, una piccolissima comunità cattolica guidata da due missionari salesiani, ha commosso il mondo. Un viaggio che avrebbe voluto fare già nel 2003 Papa Giovanni Paolo II, ma le sue condizioni di salute non glielo consentirono. E qui al Papa hanno raccontato di una “missione” tutta calabrese.
di Pino Nano
Lunedì 04 Settembre 2023
Roma - 04 set 2023 (Prima Pagina News)
Il viaggio di Papa Francesco nel cuore della Mongolia, più precisamente a Shuwuu, una piccolissima comunità cattolica guidata da due missionari salesiani, ha commosso il mondo. Un viaggio che avrebbe voluto fare già nel 2003 Papa Giovanni Paolo II, ma le sue condizioni di salute non glielo consentirono. E qui al Papa hanno raccontato di una “missione” tutta calabrese.

Don Enzo Gabrieli è oggi il parroco della parrocchia di Mendicino, siamo in Calabria e a due passi da Cosenza, ma lui in realtà è molto più che un semplice parroco. Giornalista di vecchia data, Vice Presidente della Federazione Italiana dei Settimanali Cattolici (FISC), lui è il direttore della rivista ufficiale della Diocesi di Cosenza Bisignano, “Parola di Vita”, ma è soprattutto uno degli intellettuali più affascinanti della chiesa in Calabria, un personaggio di grande cultura e di grande modernità.

18 anni fa decise di vivere con i ragazzi della sua parrocchia un’esperienza al limite dell’immaginabile. Dopo aver studiato la Mongolia in tutte le sue mille sfaccettature capì che andare in Mongolia e realizzare un forno per il pane sarebbe stata una delle missioni pastorali più importanti di quel momento per il popolo mongolo. Ma non si limitò solo a preparare il progetto di viaggio, lo fece personalmente anche lui, e si portò dietro un gruppo di ragazzi di cui in Mongolia ne hanno parlato al Papa come “esempio di solidarietà reale arrivato dall’Italia”. In questo caso, dalla lontanissima terra di Calabria.

-Don Enzo ne parliamo?

Per la verità sono trascorsi quasi vent’anni dalla nostra missione in terra mongola, ed ancora resta vivo in tutti noi il ricordo di quella terra, di quella gente che nonostante povertà e regime ha conservato l’orgoglio e l’identità del grande popolo del Khan. Il profumo del pane si mescola con quello dei ricordi, la commozione si unisce alla speranza e alla ricchezza di quei giorni di grazia e la visita ad una chiesa nascente, quasi come ai tempi degli Apostoli.

-Quando parte in realtà la sua missione?

Era il luglio del 2005 quando (dopo alcuni mesi di preparazione) ci siamo tuffati nell’avventura di andare a conoscere una Chiesa che muoveva i suoi primi passi. Da qualche mese era morto Giovanni Paolo II, il Papa che aveva desiderato visitare quella nazione dove i battezzati non erano che qualche centinaio; una o due parrocchie per un Paese grande 5 volte l’Italia e con una popolazione nomade all’80%, di 3,5 milioni di abitanti. Il Papa aveva nominato il primo Vescovo, monsignor Padilla, la rappresentanza diplomatica della Santa Sede era a Seoul, in Corea del Sud.

-Si portò dietro un gruppo di ragazzi?

In realtà accompagnai 9 giovani, tutti trentenni, coinvolgendoli nel sogno di costruire un forno per il pane in una struttura che ospitava una piccola comunità cristiana per le attività e la preghiera.

-Come avete scelto questa località così lontana dal resto del mondo?

Il gancio fu monsignor Emil Tscherrig, allora nunzio Apostolico in Corea e Mongolia, che ci aveva raccontato le difficoltà energetiche e descritto la povertà e l’alimentazione precaria; il pane era poco adatto alla digestione. Ci siamo così tuffati nell’avventura e grazie alla solidarietà di tanti abbiamo messo piede in un Paese dove il 98% parla solo il mongolo e in pochi l’inglese.

-Come è andata, soprattutto all’inizio?

La Provvidenza ci ha aiutato molto. Ci ha messo sulla strada anche due suore missionarie del Belgio, con comunità ad Ulaanbaator, la capitale. Ci hanno accompagnato a Shuvuu, alle porte del deserto del Gobi, dove hanno lavorato tanto per sostenere questa comunità. Sono stati 15 giorni di intenso lavoro, di fraternità, di conoscenza delle tradizioni. Abbiamo avuto anche la possibilità di partecipare alla grande festa nazionale del Nadaam e incontrare il buddismo mongolo.

-E’ filato tutto liscio?

Le difficoltà non sono mancate, anche di approvvigionamento alimentare a causa di una tempesta di sabbia, ma la passione per la missione, la giovinezza e soprattutto il Signore, ci hanno sostenuti. La costruzione del forno è durata 10 giorni, poi il corso alle donne per la panificazione, la pizza, i biscotti e la realizzazione delle ostie con l'attrezzatura portata dall'Italia.

-Che giornate ricorda laggiù?

Ogni giorno si apriva con la Messa, scandendo le ore tra lavoro, preghiera e riposo. Le serate con i giovani trascorrevano giocando a pallone o cantando attorno al fuoco, senza tv o internet. Per telefonare bisognava andare con la jeep in città.

-C’è una foto con lei che sforna il primo pane…

Quando abbiamo sfornato il primo pane è stata una festa per tutto il villaggio: profumo di amicizia, di solidarietà, impastata con quel pizzico di fede che ti fa fare certe pazzie. Siamo tornati a Mendicino carichi di fede, di valori trasmessi nella semplicità di vite che abbiamo incontrato e a Schuvuu e lì abbiamo lasciato tutti un pezzo di cuore.

-Che effetto le fa sapere che il Papa 20 anni dopo ripercorre le vostre strade?

Sapere che papa Francesco è arrivato in Mongolia, e che il 15 agosto scorso nel ‘nostro villaggio’ è stata consacrata la prima chiesa dedicata alla Santa Famiglia dalla viva voce del parroco ci ha riempito di tanta gioia e consolazione.

-Ne valeva insomma la pena?

Tutto ciò che è vangelo ne vale sempre la pena.


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