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Diciamo subito che la Pasqua degli Italiani d'America è una Pasqua che ha molto poco oggi di tradizioni italiane.
I nostri emigrati hanno acquisito ormai quasi completamente le abitudini del Paese straniero, dove la Pasqua si festeggia certamente con meno calore, e con meno entusiasmo, di quanto non accada ancora in Italia. O meglio, di quanto non accadesse in Italia prima dell’arrivo della pandemia.
Persino i bambini in America hanno perso l'abitudine alle tradizionali uova pasquali. Le uova americane sono fatte di pessimo cioccolato, e quelle importate dall'Italia hanno prezzi quasi proibitivi. Ma un discorso più o meno identico si potrebbe fare per le tradizionali colombe pasquali. Nei bar di Toronto, molto meno a New York, le colombe pasquali restano in vetrina per giorni e giorni invendute, e a differenza di quanto avviene in Italia, dove finita la Pasqua se ne possono comprare due al prezzo di una, qui invece mantengono inalterato il prezzo d'origine, che è comunque sempre molto alto rispetto alle buone abitudini italiane.
Per i calabresi d'America la Settimana Santa è fondamentalmente uno dei momenti e dei periodi forse più tristi dell’anno.
La stessa domenica di Pasqua è un giorno triste. È soprattutto un giorno di solitudine generale.
Se un tempo il giorno di Pasqua era - soprattutto per le vecchie generazioni di emigrati- il momento ideale per ritrovarsi tutti insieme sulla piazza del paese, e partecipare insieme agli altri la propria gioia di esistere e di convivere con la comunità che vi era attorno, qui in America la Domenica di Pasqua è un giorno come un altro.
Non ci sono né le campane a festa, né le antiche processioni della domenica.
Molti vanno a messa, ma il giorno di Pasqua le chiese americane sembrano voler ridiventare proprietà di altre razze: neri, gialli, meticci, europei, americani, esquimesi.
Ogni tempio sembra una nuova Babele, dove si prega in tanti modi diversi, e dove ogni faccia ha una storia diversa da raccontare, e un segreto da custodire.
È come se, d'improvviso, le chiese acquistassero una dimensione internazionale, dove i calabresi rischierebbero di restare sommersi dagli accenti stranieri di queste nuove razze. E allora, che senso ha andare in chiesa in queste condizioni?
Molti calabresi preferiscono passare la mattinata al telefono. Si chiamano i parenti lontani. Poi si chiamano gli amici. Poi, ancora, si richiamano i parenti lasciati in patria, è un rincorrersi a vicenda, quasi un voler esorcizzare un giorno di festa, che per gli americani-puri segna la fine di un lungo ponte festivo.
È proprio così. Mentre da noi il lunedì di Pasquetta è festa sacra per tutti, qui in America invece si torna al lavoro. E ci tornano tutti, senza distinzioni e senza scuse, perché per l'America non esiste altro, al di là della domenica di Pasqua.
La nostra tradizionale Pasquetta è qui solo un ricordo lontano.
Qualcuno in passato, aveva anche tentato di calpestare le abitudini americane, e di festeggiare comunque la Pasquetta, ma col passare degli anni anche questo tentativo è finito male: la rigida legge del mercato non ha mai accettato, e male ha sopportato, tradizioni diverse da quelle americane.
In poche parole: il lunedì di Pasqua su ogni posto di lavoro c'è un “padrone” che controlla personalmente che tutti siano al proprio posto. Soprattutto i calabresi.
Razzismo velato da comode interpretazioni politico-economiche, ma pur sempre razzismo. Guai a dirlo agli americani, reagirebbero anche male. È così che la Pasqua dei calabresi d'America scorre; tra fiumi di malinconia, e di buon vino paesano.
La Domenica di Pasqua a tavola, in ogni casa calabrese che si rispetti, si ripete puntuale come sempre il rito della grande abbuffata. Pasqua come Natale, come ogni altra festa comandata. Dall'antipasto, ai primi piatti, ai secondi piatti, ai contorni, ai dolci, alla frutta di stagione, ai classici amari locali, persino i lupini e l'indimenticabile magnesia San Pellegrino. Ve la ricordate?
Per i calabresi d'America domenica di Pasqua è fondamentalmente un giorno triste. È un giorno di solitudine. Se un tempo il giorno di Pasqua era il momento ideale per ritrovarsi tutti insieme sulla piazza del paese, e partecipare agli altri la propria gioia di esistere e di convivere con gli altri, qui in America è un giorno come un altro. Non ci sono né le campane a festa, né le antiche processioni della domenica. Molti vanno a messa, ma il giorno di Pasqua le chiese americane sembrano ridiventare proprietà di altre razze: neri, gialli, meticci, europei, americani, esquimesi.
Ogni tempio sembra una nuova Babele, dove si prega in tanti modi diversi, e dove ogni faccia ha una storia diversa da raccontare e da custodire. È come se, d'improvviso, le chiese acquistassero una dimensione internazionale, dove i calabresi rischiano di restare sommersi dagli accenti stranieri di queste nuove razze. Che senso ha andare in chiesa in queste condizioni?
Quanta malinconia, in questa atipica Settimana di Pasqua!
Per i ragazzi è diverso. Ognuno di loro ha un hobby da coltivare, ognuno ha un amico, un compagno di scuola, una cosa da fare. Nessuno di loro, nella maggior parte dei casi, ricorda le tradizioni del paese dei padri. Nella maggior parte dei casi, nessuno di loro ha mai conosciuto, o sentito, le cantilene delle nostre antiche processioni. È proprio vero che la pietà popolare è il testamento spirituale di un popolo in via di estinzione. Eppure, sia a Toronto sia anche a New York, di pietà popolare ne è rimasta ancora tanta.
La processione più bella della Settimana Santa di tutto il Nord America, era la celeberrima Via Crucis che da quasi quarant’anni -prima che arrivasse il Covid- si organizzava nella Chiesa di San Francesco d'Assisi a Toronto. Era una di quelle manifestazioni popolari che valeva la pena di vivere in prima persona, almeno una volta nella propria vita, perché almeno 200 mila persone, nel pomeriggio del Venerdì Santo, si riversavano per le strade della città più vecchia di Toronto City e seguivano con grande partecipazione la “grande processione italiana” che si snodava dietro la bara del Cristo morto.
-Mister Fortunato Febbraro, cosa ha rappresentato per voi emigrati italiani la processione del Venerdì Santo a College Street?
“È stato e lo sarà per sempre, un ritorno alle nostre tradizioni e al nostro passato comune. Ritornare il Venerdì Santo su College Street per tutti noi italiani vuol dire tornare nei luoghi dove la nostra emigrazione è di fatto incominciata, con i tanti ricordi di quei primi anni, anni di sacrifici, ma anche di grandi speranze. Quando un italiano arrivava per la prima volta a Toronto, era a College Street il suo unico punto di riferimento, il cuore vero della Little Italy di Toronto City”.
-Quanto vi manca ora questa processione che non potete più fare?
“È come se di colpo mancasse un pezzo di noi, una tradizione che scompare forse per sempre, e quindi per tutti noi la consapevolezza che stiamo perdendo anche una parte fondamentale del nostro passato! È la stessa sensazione che si ha quando qualcuno a cui sei legato se ne va via per sempre”.
-Quali sono i ricordi più forti della processione? I cori? I carri allegorici? Le cantilene?
“I cori e le cantilene delle donne, che mi riportavano al nostro paese di origine. Bastava chiudere gli occhi, e di colpo mi sembrava di essere tornato nella mia vecchia chiesa parrocchiale, seduto vicino agli amici di sempre e della mia infanzia”.
Credetemi, non è facile né immaginare né descrivere questa marea umana che, col volto coperto e tra le mani un rosario, sfilava per sei ore filate sotto qualunque clima e qualunque temperatura. La processione era per tutti quelli che vivevano in Ontario la famosa “processione degli italiani” del Canada.
Nei fatti però l'anima pulsante del corteo era fatta tutta calabrese.
In testa, dietro i centurioni a cavallo, sfilava la congrega di San Nicola da Crissa, che ha importato qui a Toronto la vecchia tradizione sannicolese della vara di Gesù. Un mondo variopinto di colori, di emozioni, di sensazioni, le bambine vestite di nero, le famose addoloratine che si vedono ancora a Pizzo Calabro o in molti paesi della Locride, gli apostoli di Gesù, che si battono il petto in segno di sofferenza, i fedeli che si flagellano la schiena con pesanti catene, le donne delle altre congreghe che cantano le nenie della passione, i maschi dei vari social clubs che portano in spalla le statue dei santi.
Il tutto avveniva ricordo in maniera ordinata, quasi maniacale, come se una regia attenta avesse previsto persino la cacca dei cavalli, e dietro i quali c’erano gli uomini della nettezza urbana, pronti a raccogliere lo sterco e a ripulire il selciato. Mille telecamere impazzite, mille macchine fotografiche, è come se ognuno volesse custodire per sempre immagini care alla propria memoria.
Dietro la congrega di San Nicola da Crissa, veniva quella della Madonna di Monserrato, la congrega di Vallelonga, il Comitato Santonofrese, l'Associazione Madonna delle Grazie di Torre Ruggero, le addoloratine di Chiaravalle, i rappresentanti del Congresso italo-canadese, i Marshall, i carabinieri della sezione di Toronto, i volontari della Croce Rossa. Poi le massime autorità cittadine, il sindaco di Toronto, il capo della polizia municipale, il cavaliere Giuseppe Simonetta responsabile del Comitato Organizzatore della Via Crucis di College Street, gli stendardi dei vari paesi, i gonfaloni e gli stemmi delle mille comunità trapiantate in Ontario, i rappresentanti dei partiti politici, gli ospiti e gli osservatori stranieri, le delegazioni dei tanti italiani sparsi per Stati Uniti d’America. Vedere, per credere. Guardare, per capire. Osservare e partecipare, per commuoversi con loro e come tutti loro.
Padre Angelo Bucciero, allora c’era lui ricordo che in rappresentanza dei frati francescani dava il via al corteo, e dopo di lui ricordo ancora padre Raffaele Paonessa, padre Isidoro De Miglio, e tutti gli altri fratelli del St. Francis Church. 200 mila italiani hanno sempre scritto i giornali americani, ma almeno 60 mila erano ex figli di Calabria.
Mai come quel giorno, qui a Toronto, ci si sentiva davvero tutti figli della stessa patria, ma soprattutto tutti figli di Calabria. Le preghiere, il modo di porgere le offerte al passare delle statue, il modo di cantare, tutto qui profumava di storia calabrese. Persino le bande musicali, quattro o cinque tutte insieme, una dietro l'altra, sembravano parlare i nostri ritmi e le nostre antiche marce funebri.
-Mister Fortunato Febbraro, Che Pasqua sarà oggi per voi italiani d’America?
“Anche se la Pasqua qui non è una festa celebrata da tutti, per noi la Pasqua è l’occasione ideale per rivivere in pieno e celebrare la nostra Italianità. Con i vicini di casa che sono oggi in stragrande maggioranza di etnie diverse, ci dà la possibilità di condividere le tradizioni e la gastronomia che le nostre tradizioni ci tramandano da generazione in generazione.
-Con il Covid, come è cambiata la vostra Pasqua?
“Con l’imperversare del Covid Virus, le aggregazioni famigliari sono impossibili, e siamo fortunati se non abbiamo delle famiglie molto numerose, perché questo ci permette di poterci quanto meno riunire con i figli e nipotini. Una tragedia collettiva anche per noi qui in Canada.
-Cosa vi manca di più dell’Italia?
“Sicuramente i famigliari, le tradizioni, la cultura e gli amici d’infanzia con cui abbiamo condiviso la nostra gioventù! Anche se a dire il vero sappiamo bene che l’Italia, ed i nostri paesini, non sono più come li abbiamo lasciati. È cambiato tutto anche lì. Almeno però ci rimane il desiderio di voler continuare, a tutti i costi, a immaginare quel nostro piccolo mondo antico, che ci ha visti crescere così felici. Ma siamo perfettamente tutti consapevoli che quel nostro mondo non c’è più! Ma i sogni non costano nulla, e allora perché rinunciarvi?”
-Nessuno meglio di lei può dircelo, come vivono oggi gli italiani d’America?
“Con i vari condizionamenti relativi alla pandemia. Anche qui come nel resto del mondo si sta’ diffondendo sempre più uno stato generale depressivo! Il fatto di non poter trovare un modo per controllare questa pandemia, sta’ incominciando a nuocere in particolare agli anziani, i quali vedono la loro vita volare via, ma anche i più giovani che non riescono più a socializzare tra di loro e con gli altri”.
-Quanto in Ontario la crisi economica pesa sulla vostra vita?
“Tantissimo, davvero. Visti i condizionamenti e le limitazioni che abbiamo subito per via del Virus, probabilmente tutto questo oggi ci fa rimpiangere il passato e apprezzare molto di più quello che avevamo prima di questa pandemia”
-È vero che a College Street i parla ancora il dialetto? O i giovani lo hanno dimenticato?
“Purtroppo, molti dei nostri corregionali non vivono più intorno a College Street, o la “piccola Italia” come era chiamata prima. Adesso questa zona ha accolto emigrati dal Portogallo e dalle zone Asiatiche, dalla Corea in particolare, e molti calabresi si sono trasferiti altrove. Moltissimi italiani come loro. Non ci sono più i tanti negozi italiani di libri che c’erano un tempo, ma non ci sono più neanche i tanti bar italiani di una volta. Per fortuna il lavoro meraviglioso di CHIN radio qui in Ontario, e la presenza ancora di qualche ristorante di origine italiano ci aiutano a dire che c’è ancora qualcuno per fortuna che da queste parti parla ancora il dialetto calabrese. Me diventa sempre più una rarità tutto questo”.
La Via Crucis di Toronto diventava così, dunque per gli italiani d’America, e soprattutto per i calabresi dell’Ontario, un modo per rivivere, tutti insieme, vecchi sapori di Calabria. Se a San Nicola da Crissa molte delle vecchie tradizioni popolari della Settimana Santa sono poi andate scomparendo, bastava invece venire qui a Toronto, per ritrovarle tutte insieme, inalterate e per niente scalfite dal tempo e dalle distanze.
Forse ha ragione Michael Lettieri, famosissimo ordinario di Letteratura Italiana alla Toronto University: "Non c'è manifestazione più bella di questa in tutto il Nord America. Qui oggi c'è una parte importante della Calabria di un tempo. È anche questo un modo per sentirsi vivi, per rivivere antichi legami e antiche abitudini, per credere che la vita si sia fermata. E se per gli americani, questa processione è oggi considerata una icona della modernità americana, per noi calabresi è molto di più. È la stessa nostra storia di uomini e di cristiani. Un tempo questa processione era vietata dalle autorità americane. Poi venne Papa Paolo VI, e disse che la pietà popolare andava rispettata: da quel giorno noi calabresi ci siamo riappropriati di una cosa che non ci appartiene completamente, ma che sentiamo nostra. E lo facciamo anche nel nome della nostra grande malinconia".
Ma alla fine a portasela via per sempre, almeno per ora certamente, è stato il Covid.