Bookdown..."Il Virus della lettura..." a cura di Carmine Castoro
La “dittatura” delle immagini. Covid, tv trash, algoritmi.
(Prima Pagina News)
Sabato 08 Maggio 2021
Roma - 08 mag 2021 (Prima Pagina News)
La “dittatura” delle immagini. Covid, tv trash, algoritmi.

Una ragazza umile e bella trascinata dal rullo di un macchinario tessile a Prato dove prestava la sua opera. Un operaio schiacciato da una enorme fresa industriale a Busto Arsizio, nel Varesotto.

 Un altro manutentore ucciso da una lastra di cemento a Bergamo. Due vittime accertate nell’esplosione di un laboratorio per la produzione di cannabis a uso terapeutico a Gubbio.

  E poi altre disgrazie, con la vita di altri innocenti strappata via, fra Parma, Bolzano e Campobasso, per balle di fieno e sacchi di mangime più pesanti di una trave e per cadute da impalcature in cantieri edili, solo negli ultimi giorni. 1270 i “caduti” sul lavoro nell’anno folle del Covid. 


  Più di 190 già in questi primi mesi del 2021. Decessi che non hanno mai avuto l’”onore” di una diretta, di un’apertura di tg.

  E guarda caso, adesso, la macchina squallida e stritolatrice alla quale si è ridotta la classica nobile funzione “mediatrice” della televisione e dei giornali, sta utilizzando la stessa stupida conta, la stessa modalità aritmetica e voyeuristica che ha utilizzato per la “pandemia” da Coronavirus.

 Servono filoni narrativi, storie in sequenza, telenovelas del dolore, “pasticciacci” di periferia che squadernino ogni giorno aggiornamenti e tensioni attentive, nuove soglie di rischio e finti stupori.

 Lo spettatore è merce cerebrale e nervosa da ghermire e sfinire in spirali emozionali senza un perché, senza un domani, senza analisi di cause e soluzioni che non siano il mero dardeggiare di input visivi che si accendono e spengono alla bisogna sui nostri canali preferiti.

  L’altro ieri valeva per il terrorismo e l’Isis, ieri per una malattia “misteriosa” che si sparge nel mondo dalla Cina, oggi per chi sacrifica se stesso per un tozzo di pane.

 Quanto basta per appoggiare in pieno il ficcante e inesorabile pamphlet della filosofa francese Marie-José Mondzain “L’immagine che uccide” (Edizioni Dehoniane), che sentenzia: “Quando si dice che un’immagine è violenta, si intende che può agire direttamente su un soggetto al di là di qualsiasi mediazione linguistica.

 E ciò significa che si abbandona il campo delle produzioni simboliche per entrare in quello, più inafferrabile, dell’influenza quasi ipnotica, della perdita del reale, dell’allucinazione collettiva o del delirio privato.

 A sua volta, questo significa che ci si interesserà dei movimenti comunicati dall’immagine e non del suo contenuto figurativo.

 Ora, la questione consiste nel distinguere, all’interno delle produzioni visibili, quelle che si rivolgono alle pulsioni distruttrici e fusionali da quelle che sono incaricate di liberare lo spettatore da questa pressione portatrice di morte, sia per se stesso che per la comunità”.

 Che, semplificato, può voler dire: l’immagine funge troppo spesso da “otturatore” di movimento, è accelerata, saturante, stracolma di significati eterodiretti – esattamente come ha funzionato la propaganda delle dittature del Novecento -; è manipolazione profonda con i cui segni entriamo in un tale rapporto di commistione senza scissione critica da veder morire, veder soffocare ogni funzione conoscitiva e accrescitiva del medium stesso.

  Siamo tutt’uno con ciò che vediamo, sommersi di dati, retorica, statistiche, morali d’accatto. In assenza di linee d’ombra, di demarcazioni provvisorie e rigeneranti del visibile e non confusionarie e fagocitanti (vi dice qualcosa l’orrido maleodorante ciarpame televisivo dei format della De Filippi e della D’Urso dove si millanta spaventosamente una “difesa” dell’amore, dell’arte, del mondo giovanile, del buon vicinato, della verità nei fatti di cronaca?), ecco, in assenza di una comunicazione dove – sottolinea la Mondzain – la cosa vista venga “educata dalla voce”, cioè dalla cultura e dallo sforzo collettivo di capire e trasformare l’esistente, la vera umiliazione incistata nella comunicazione di massa è “l’abolizione intenzionale – o non intenzionale – del pensiero e del giudizio”, “l’uccisione del pensiero per mezzo della produzione di immagini tiranniche”.

 Il web e la spazzatura social amplificano questo tsunami di nulla, fra odiatori e depensanti, like-dipendenti e trastullatori professionisti, sistemi di sorveglianza e profilazioni di identità, là dove l’educazione al sentimento e allo sguardo, gli edifici dell’apprendimento, le prassi motivate e creative cedono del tutto il passo all’informe e all’assassinio delle diversità, e spesso dei diritti civili.

 David Kaye, sociologo della University of California e importantissimo collaboratore delle Nazioni Unite, in questo suo “Libertà vigilata” (Treccani) spiega il potere delle piattaforme, i ritardi legislativi europei e non solo per arginarne le sculture procedurali che esercitano sui nostri comportamenti e l’espressione delle nostre libertà dialogiche e politiche, ne svela le connivenze con Stati-canaglia, la “moderazione” dei contenuti che può diventare controllo e bavaglio, quando non semplice paura di un eccesso di responsabilità e di sanzioni delle Corti speciali, che spingono a perimetrare ciò che noi tutti utenti della rete vogliamo condividere.

 Il passaggio – dice Kaye – fra i forum degli anni Ottanta che erano “custodi” gelosi e raccolti di contenuti e le major del Web di oggi, sempre più “istituzioni di governance” e, di fatto, e con grave rischio etico, veri e propri “amministratori dello spazio pubblico”, porta al dovere di stabilire parametri e scale valoriali ben precise per garantire tutti: le compagnie di servizi che devono fare tesoro dei materiali che gestiscono in chiave di trasparenza e implementazione delle risorse umane circolanti, gli utenti che devono poter interagire senza meccanizzazioni e interferenze pericolose, anzi partecipando ai processi decisionali delle architetture digitali che li avvolgono, e i governi stessi che devono sì far punire i trasgressori che pubblicano video e affermazioni di morte e discriminazione, ma senza delegare ai privati oneri che sono di tipo pedagogico e comunitario, senza cioè rinunciare alla loro funzione pubblica di educatori e orientatori costruttivi della stabilità sociale e dell’eventuale dissenso verso le istituzioni.

 Insomma, Kaye ci fa capire che la sfida simbolica del prossimo futuro è una dimensione online-integrata che non rinunci mai alla dotazione antropologica fondamentale di dire ciò che si pensa, ma di farlo anche all’interno di regole chiare, certe, acquisibili da tutti, con gli Stati a far da cardine, e senza quel filtraggio “proattivo” alla fonte, che è un abuso, soprattutto quando denunce di stragi e di impunità non possono essere escluse col banale aratro algoritmico di ro-bot che cancellano ogni documento che riporti a scene di sopraffazione - come avvenuto tante volte nel teatro di guerra siriano -  senza una diagnosi accurata di ciò che realmente significhi: se un attacco pretestuoso e diffamante del nemico, o la difesa di qualcosa messa a repentaglio dalla crudeltà del nemico stesso.

 Pena, dice Kaye, “Un’Internet centralizzata, dominata dagli imperativi aziendali della pubblicità, del data mining e dell’incentivo alla viralità”.

Il simulacro che uccide, appunto, come per la Mondzain.


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