Gerace, alla LUISS Gianni Riotta, Walter Pedullà e Lorenzo Infantino, per il libro di Francesco Spanò

“Gerace, Città delle cento chiese”, parterre d’eccezione a Roma

di Pino Nano
Giovedì 23 Gennaio 2020
Roma - 23 gen 2020 (Prima Pagina News)

“Gerace, Città delle cento chiese”, parterre d’eccezione a Roma

Da anni il vero padrone di casa, qui alla LUISS, è un “foggiano d’autore”, Giovanni Lo Storto, direttore generale dell’Università che porta il nome di Guido Carli, ed è lui che questa volta apre le “danze” dell’ennesima cerimonia di lancio e di presentazione dell’ultimo libro di Francesco Maria Spano “Gerace, Città delle cento chiese”. Lo fa in questo modo, alla sua maniera: “Questa è un’occasione per parlare di un libro molto distante da ciò di cui noi ci occupiamo di solito, ma questo è un libro che tocca le corde dell’anima. Nell’esperimento di Francesco Maria Spanò ci sono una passione e un filo emotivo trasmessi con molta chiarezza”. “Troiano” il primo, è Giovanni Lo Storto, perché nato a Troia che è un minuscolo paesino del foggiano, “Geracese” il secondo, Francesco Maria Spanò, autore del libro ma soprattutto Capo del personale della LUISS, perché originario di Gerace: due manager dei giorni nostri, che lavorano oggi sotto lo stesso tetto, e che per una sera si ritrovano a discutere non di strategie aziendali e industriali ma di “ricordi”, di “infanzie lontane”, di vecchie foto di famiglia, per giunta in bianco e nero. Meravigliosa serata, davvero. “Foto di famiglia, un cordone ombelicale che con Gerace rimane fortissimo”, e al momento di introdurre nell’arena del dibattito Gianni Riotta, Giovanni Lo Storto lo fa con un pizzico di orgoglio tutto accademico: “Gianni Riotta -dice- ha ridisegnato la Scuola di giornalismo della LUISS, Francesco Spanò ha ridisegnato invece la sua città. E si è comportato proprio come un direttore: ha affidato la stesura di un pezzo ai suoi concittadini, e poi ha tirato le fila». Dunque, in questo libro -traduce il “cofounder dell’acceleratore di impresa LuissEnlabs” – “si celebre l’amore per una terra, l’amore per uno strumento, la fotografia, e l’amore per una modalità, che è quella giornalistica”. Ma quanto tutto questo è vero? “È vero fino in fondo”, parola di Gianni Riotta, che esordisce in questo modo: “È vivo oggi più che mai nel dibattito più ricorrente un formidabile pregiudizio antimeridionale, spesso basato sulla ricerca anglosassone degli anni ‘50, secondo cui il Sud è luogo amorale dove non c’è Stato e dove è assente la società civile. Questo libro è invece la prova, nelle sue foto, che questo pregiudizio è sbagliato”. La lettura che ne fa di quest’opera il Direttore della Scuola di Giornalismo della LUISS diventa dunque una vera e propria provocazione politica: “Il Sud è stato sabotato – aggiunge Gianni Riotta- e lo Stato ha una sua terribile assenza, ma la solidarietà delle famiglie, delle scuole, delle parrocchie, delle università è società civile. Chi si avvicina a questo libro deve fare uno sforzo: guardare le foto, una per una, e leggere le didascalie. La fotografia della bellezza del Sud perduto tradisce il fatto della grettezza del Sud perduto. Qui, in queste didascalie c’è un nome, un cognome, una data. Sono ritratti di uomini e donne che vanno alla festa. Ritratti anche alla Spoon River, c’è persino la fotografia della lapide”. Gianni Riotta, a guardarlo questa sera qui con i capelli e la barba così bianca non sembra neanche più lui, ma nella sua vita è stato uno grande inviato speciale e un grande cronista d’assalto, e questa sera si riconferma più moderno che mai, non ha infatti nessun dubbio nell’utilizzare il libro su Gerace come una metafora: “Se il Sud vuole ripartire -sottolinea il grande giornalista- deve ripartire dal suo passato. Questo è un libro d’arte, un libro di speranza, e dentro troverete quella rinascita morale che Gramsci chiedeva al Sud”. Dopo di lui tocca a Walter Pedullà, uno dei grandi intellettuali italiani del nostro tempo e del nostro Paese, e che anche in questa occasione non nasconde la sua tradizionale semplicità nel modo di porsi e di essere: “Come figlio della Calabria, io sono un testimone da 90 anni di Gerace- dice- e ricordo che da bambino, avevo ancora appena un anno, dalla mia casa di Siderno ho guardato a Sud Ovest e ho visto una rocca, e mia madre mi disse che quella era Gerace”. Poi confessa candidamente: “Di fotografia non so nulla, allora voi vi chiederete: perché tu sei stato chiamato a parlare? Un libro – e qui Walter Pedullà riscopre il carisma del vecchio professore universitario- un libro quando viene scritto appartiene alla letteratura. Qui la scrittura fa da supporto alla fotografia”. Quasi un “colpo di fulmine, insomma”: “Marcel Proust parlava di “intermittenze del cuore”: qualcosa di quotidiano colpisce la tua anima, quel dettaglio insignificante è quello di cui si è dotato l’essere per manifestarsi. Le intermittenze del cuore sono manifestazioni del senso della vita”. Per il vecchio maestro di letteratura italiana “Nasce da qui la consapevolezza che le didascalie sotto ogni foto del libro sono aggettivi, quasi delle carezze, un’idea del sentimento dell’autore, quasi un abbraccio, una manifestazione d’affetto, un rapporto caloroso che l’autore ha con tutti i suoi personaggi proposti”. In sala si respira un silenzio quasi religioso, il vecchio professore incute grande soggezione, ma anche grande fascino per il modo come racconta la sua terra di origine, che è la Locride, e per come alla fine conclude questa sua ennesima lezione magistrale: “Paul Valery diceva che il primo verso lo regala Dio, il problema è il secondo. Bene, oggi vi dico che il primo libro di Francesco Spano è dono di dio, vediamo il secondo, lo aspettiamo”. Per l’autore di “Gerace, Città delle cento chiese”, è il coronamento di un lavoro complesso, scritto a quattro mani con tanti altri suoi vecchi amici di infanzia, Lorenzo Infantino, Fulvio Giardina, Enzo Romeo, Maria Giuseppina Cimino, Antonio Pio Condò, Alessandro Scaglione, Carlo Migliaccio, Vincenzo Cataldo, Giacomo Maria Oliva, Suor Dila Shtjefni, Luigi Condemi di Fragastò, Marilisa Morrone, e che oggi diventa, loro malgrado, oggetto di “analisi” ma anche di “esaltazione letteraria”. Alla fine il botto finale, prende la parola Lorenzo Infantino, professore ordinario di Filosofia delle Scienze Sociali alla Luiss, e a cui Francesco Spanò ha chiesto di scrivere la prefazione del suo libro: “Questo libro contiene un dramma, che è il dramma dell’abbandono, il dramma di persone che sono partite, abbandonando la propria terra». Calabrese anche lui, emigrato anche lui, il grande sociologo oggi è qui per fare autoanalisi, e lo fa in pubblico, senza nessuna reticenza, quasi in maniera liberatoria, e confessa quello che nessuno di noi forse ha mai avuto il coraggio di riconoscere a sé stesso, e cioè che “Le radici fanno male. Fanno male perché sono legate a chi non c’è più. Devo dire che da questo punto di vista Francesco Spanò -aggiunge-mi ha molto aiutato. All’inizio io avevo paura di affrontare questo libro, è come se avessi tenuto nascosto per tanto tempo un dolore, il libro invece alla fine mi ha aiutato in questa mia elaborazione del lutto. Le radici sono la nostra umanizzazione. È il passato che non passa, e che ci accompagnerà fino all’ultimo giorno della nostra vita. È la bussola che orienta nel cogliere le nostre possibilità”. L’analisi è spietata, quasi commovente, emigrazione come senso abbandono, partenza dai propri paesi come perdita delle radici, quasi un lutto di famiglia. Forse anche di più. Dio quanto è terribilmente attuale, e soprattutto vero, tutto questo! Il grande conforto è che per fortuna nessuno potrà mai levarci dal cuore e dalla mente il “paese ombra” che ognuno di noi si porterà dentro per sempre, e che le fotografie di un libro come questo di Francesco Spanò cristallizzeranno e storicizzeranno per chi verrà dopo di noi.


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