#Covid e laboratori cinesi, il vecchio professore dell’Università di Cassino scrive a Paolo Liguori
Sul Giornale di ieri Paolo Liguori descrive il suo stato d’animo, perché si sente “linciato” nella sua teoria sul Covid “cinese”. A rispondergli oggi è uno dei vecchi professori dell’Università di Cassino, il sociologo scrittore Rocco Turi, che insegnava negli anni in cui Paolo Liguori frequentava Cassino e Sora come studente.
di Rocco Turi
Lunedì 17 Maggio 2021
Roma - 17 mag 2021 (Prima Pagina News)
Sul Giornale di ieri Paolo Liguori descrive il suo stato d’animo, perché si sente “linciato” nella sua teoria sul Covid “cinese”. A rispondergli oggi è uno dei vecchi professori dell’Università di Cassino, il sociologo scrittore Rocco Turi, che insegnava negli anni in cui Paolo Liguori frequentava Cassino e Sora come studente.
Paolo Liguori si è infilato in un “cul de sac” da cui non trova alcun modo per uscirne. Dopo svariate trasmissioni di Fatti&Misfatti dedicate al covid-19, Liguori si è ora affidato alla prima pagina del Giornale per ribadire ciò che egli stesso qualche mese fa aveva chiamato “fissa”: l’origine cinese della pandemia.

Sarebbe meglio chiamarla “ossessione” e un po' se ne accorge perché, rivolgendosi ai lettori del Giornale, esordisce con un esilarante “scusate se insisto”. Egli si duole che a nessuno interessi sapere quale sia la genesi del virus, fermo restante che - a suo parere - l’origine della pandemia debba essere la Cina e il titolo apparso sul Giornale è eloquente: “Chi non vuole la verità sulla Cina e sul Covid”.

Liguori s’è talmente intestardito per cui, commentando l’articolo intorno alle ore 14 nel TgCom24 che dirige, la sua redattrice ha fatto lunghissimo, puntuale resoconto e lettura di alcuni passi ben indicati con evidenziatore da sembrare imbarazzante, su concetti peraltro del tutto contraddittori. Nell’articolo, infatti, si fa riferimento a “scienziati australiani” per i quali “anche la Sars, alcuni anni fa, nacque e si sviluppò allo stesso modo partendo dal laboratorio di Wuhan”.

Insomma, Liguori mette tutto all’interno di uno stesso calderone e per confermare la “tesi australiana” si avvale di Luc Montagnier il quale non conferma un bel niente se non affermare, come Liguori asserisce, che Montagnier avrebbe espresso dubbi sulla sicurezza dei laboratori. Ma da qui a mettere sulla bocca di Montagnier (“le loro tesi seguono di un anno quelle del professore francese”) una conferma a quanto affermato dagli “scienziati australiani” c’è un abisso che aggrava le riflessioni di Liguori su quello che “a priori” debbano senza alcun dubbio essere responsabilità dei cinesi.

Per l’ennesima volta Liguori riferisce di aver ricevuto “informazioni attendibili e dettagliate sul virus uscito dal laboratorio il 24 gennaio del 2020 e ho cominciato - come mio dovere - a diffonderle”; ma in questo passo e in prima battuta non cita “l’intelligence” che ha avuto la bontà di informarlo. Sarà perché Liguori abbia compreso in ritardo che non sia il caso di insistere sull’intelligence? Affermare tuttavia che unicamente sulla base di tale confidenza sarebbe stato un “dovere a diffonderle”, appare un’enorme ingenuità professionale.

Nei miei precedenti articoli su PrimaPaginaNews avevo già spiegato a Liguori che fidarsi ciecamente dei servizi di intelligence è cosa estremamente grave, perché un giornalista non può sapere quale sia l’obiettivo delle confidenze ricevute e nemmeno può ritenersi in grado di fidarsi di una eventuale amicizia fraterna che, nel campo specifico, può esistere solo per ingenui e creduloni. Su tale argomento si potrebbe fare una lunga lezione ma non credo che questa sia la sede adatta.

Liguori addirittura interpreta a modo suo la “morte, alla fine di dicembre, di uno scienziato contagiato nei laboratori”. Ma siamo in Cina e per interpretare i fatti interni di un Paese non è come “due più due fa quattro”. Come faccia Liguori ad affermare che la proibizione cinese “a chiunque di diffondere notizie” sia da collegare a una fuga del virus è solo mistero.

Per comprendere le dinamiche di un Paese è necessario abitarci o studiare a lungo, e per entrare nella dinamica cinese - che è un Paese comunista - è estremamente più difficile; entrare nelle loro logiche e psicologia è un rebus inestricabile se non per faciloni. Concludere che i segnali percepiti da Liguori debbano essere interpretati in maniera talmente perentoria, fa il paio con quei giornalisti ambigui che attribuiscono alle intercettazioni fornite sottobanco valore di condanna definitiva.

Ma Liguori è ugualmente semplicistico nelle sue argomentazioni quando afferma che “queste sono notizie accertate da più fonti, ma sono state sottovalutate sistematicamente dall’informazione”. No, compiere analisi su voci e informazioni così poco certificate equivale ad essere superficiali, imprecisi e approssimativi e bene hanno fatto coloro a cui il direttore si rivolge in incipit affermando: “davvero non interessa così tanto sapere da dove ha origine il covid-19?”.

Magari si potrebbe asseverare che i soggetti a cui Liguori si rivolge ritengano puerile il suo filone d’inchiesta e non siano ugualmente interessati a perseguire la tesi per la quale soggetti non cinesi abbiano piuttosto previsto, scritto e disquisito sullo scoppio di una pandemia esattamente a cavallo fra il 2019 e il 2020. Sarebbe interessante sapere da Liguori, ma anche da altri giornali e giornalisti italiani, quale sia l’interpretazione di tutto ciò nonostante autorevoli interventi di studiosi e addirittura della magistratura di Paesi stranieri. Poca cosa è invece il riferimento di Liguori ai ricercatori che fanno appello ad aprire gli archivi.

Insomma, l’articolo di Liguori appare più come un’indagine a tema senza alternativa di cui il titolo in prima pagina del Giornale è eloquente. A conferma di ciò Liguori insiste nelle sue certezze sulle responsabilità di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “totalmente asservito agli interessi della Repubblica cinese”, nonché “organismo Onu privatizzato dalla Cina”. Sarà vero e documentato? Ma Liguori non sembra affermare tutto ciò in qualità di severo direttore o di studioso, piuttosto di blogger senza freni.

Il direttore fa poi considerazioni a volo fra economia e geopolitica tratte da generiche “fonti di informazione” (presumibilmente giornalistiche) che sarebbe inutile commentare, ma si ferma sulle “altre notizie più complicate”. Verrebbe da dire ancora una volta: ma che giornalismo fa Paolo Liguori? Peraltro, egli si sente “esposto ad una specie di congiura del silenzio, una sorta di linciaggio per chi fa il mio mestiere” e, quasi come un Masaniello, va alla ricerca di “tutte le fonti che si occupavano dell’origine della pandemia, per verificare l’autenticità e la profondità delle notizie”, tutte basate su illazioni che transitano da Taiwan a tutti i continenti abitati che nulla dimostrano.

Ecco perché Liguori si muove in un vicolo cieco e non ha via d’uscita. Ma egli insiste perché l’OMS avrebbe “continuato a difendere un muro di disinformazione” e si affida ai libri di scrittori, ospiti alla sua trasmissione, che tutto affermano tranne assecondarlo nella responsabilità cinese del covid-19. Dar forza alla sua tesi affermando che un autore abbia “spiegato che gli esperimenti sui virus in Cina ci sono da almeno 5 anni e sono militari, sotto il controllo diretto del partito comunista”, vuol dire impelagarsi davvero nell'ovvietà e in una via senza uscita. Paolo Liguori cerchi di fermarsi un po': come egli ha avuto modo di affermare, la gente “dimentica da una settimana all’altra” ed egli non resterà col fatidico cerino in mano.

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