L’infinita questione giudiziaria, il vero Male Oscuro di questo Paese.
La “questione giustizia” in Italia è come la “questione meridionale”- scrive in questo saggio lo scrittore Mimmo Nunnari, autore di saggi importanti sulla storia del Mezzogiorno- Se ne parla da sempre ma nessuno la risolve, e perciò è diventata una questione permanente, apparentemente irrisolvibile.
di Mimmo Nunnari
Domenica 29 Gennaio 2023
Roma - 29 gen 2023 (Prima Pagina News)
La “questione giustizia” in Italia è come la “questione meridionale”- scrive in questo saggio lo scrittore Mimmo Nunnari, autore di saggi importanti sulla storia del Mezzogiorno- Se ne parla da sempre ma nessuno la risolve, e perciò è diventata una questione permanente, apparentemente irrisolvibile.

Ci fosse ancora Giulio Andreotti, direbbe che ci sono due tipi di pazzi i n Italia, quelli che credono di essere Napoleone e quelli che vogliono riformare il sistema giudiziario. Nell’aneddoto originale - che noi abbiamo parafrasato - Andreotti in verità si riferiva a chi aveva la convinzione di risanare le Ferrovie dello Stato. Ma la storiella andreottiana dei pazzi noi l’abbiamo riadattata alla questione perennemente al centro di infuocate polemiche, con tutti i Governi, in tutte le legislature, chiunque sia il ministro Guardasigilli che oggi è l’ex magistrato Carlo Nordio di cui, come non bastassero le dispute sul tappeto, si annuncia l’uscita di un libro “Giustizia ultimo atto” (Guerini e Associati editore) per il prossimo 17 Febbraio,  che non è difficile immaginare abbia l’effetto della la benzina gettata sul fuoco. Il ragionamento di Nordio è anticipato nel lancio che anticipa l’uscita del libro: “A trent’anni da Tangentopoli, il progetto di ripristinare la legalità nelle istituzioni è ancora ben lontano dall’essere realizzato. La corruzione non è diminuita, anzi ha aumentato i suoi introiti. Ma l’effetto collaterale più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese.Occorre una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario, perché il tempo sta per scadere. Siamo ormai all’Ultimo Atto”.  “Ultimo atto”. Detto da Nordio fa l’effetto di una dichiarazione di guerra alla magistratura “dominante” e alla politica che “controlla”. 

In apertura di questa riflessione sul sistema giustizia, non a caso abbiamo citato lo statista democristiano e vecchia volpe della politica Giulio Andreotti.

Era lui, aneddoti a parte, che si poneva la maliziosa domanda: “Ma perché la stupenda frase «la giustizia è uguale per tutti» è scritta alle spalle e non davanti ai magistrati”? 

Era un modo, per l’astuto leader democristiano, per dire la sua con stile curiale su un tema altamente divisivo, su cui, come in un duello western, in mezzo c’è il giornalismo italiano che col suo vizio d’origine, che lo costringe fin da prima del Risorgimento a schierarsi a favore o contro una causa (caratteristica sconosciuta nei giornali europei), condiziona e influenza il dibattito.

La giustizia è sempre al centro di polemiche, come il campionato di calcio, con le tifoserie agguerrite che si scontrano. Mai, un ministro Guardasigilli è uscito indenne dal “suo” tentativo di riformare la giustizia. Tutti ci hanno provato, ottenendo risultati modesti e soluzioni spesso contraddittorie.  Adesso, che si è appena spento l’eco delle polemiche sulla riforma Cartabia, che sembra avere scontentato tutti, è il turno di Nordio, finito subito a torto o ragione sotto il tiro dei suoi ex colleghi e dei giornali, pur ricevendo ovviamente il plauso dell’altra parte delle tifoserie.

E’ così, da tempo. 
Appena si tocca il tema giustizia il sistema politico e mediatico entrano in fibrillazione e si aprono le danze, con ballerini che però non si muovono all’unisono. Chi va di qua e chi va di là nel volteggiare, che non è il massimo nel ballo.

Di solito, quando la polemica s’infiamma scende in campo il presidente della Repubblica, il “garante”, per moderare i toni e auspicare quantomeno un clima più disteso fra le parti. Lo fece il presidente Ciampi, con all’epoca ministro della Giustizia Enrico Castelli, che avrebbe voluto valutare la produttività dei singoli magistrati e degli uffici giudiziari, senza riuscirci. “…Che cessino le polemiche condotte con toni non conformi al rispetto della corretta dialettica istituzionale…”, disse Ciampi.

Mattarella, sul tema è sempre con la mani avanti, fin dal suo discorso di insediamento al Quirinale (il secondo) quando avvertì: “Serve una profonda riforma della giustizia”. In questi giorni scorsi è intervenuto in occasione dell’elezione del vicepresidente del Csm, per lanciare un monito: 
“Il Csm è chiamato a obiettivi rilevanti e sono certo che li affronterà con obiettività e concretezza". Lo sa, lui, politico di lungo corso, costituzionalista e fine studioso, che non è affatto facile che le cose vadano bene, in una materia così controversa. La storia giudiziaria del nostro paese è storia di scontro fra poteri, condotto spesso con violazioni delle rispettive (magistratura e politica) autonomie e prerogative.

Anni fa, un integerrimo magistrato, Piero Tony, nato a Zara e vissuto a Napoli in gioventù, concluse la carriera di procuratore della Repubblica a Prato con due anni di anticipo e spiegò la sua decisione “anomala” (di solito si tenta di rimanere il più possibile in servizio) in un libro dal titolo molto emblematico: “Io non posso tacere” (Einaudi).

Il saggio conteneva un lungo rosario di pesanti ed esplicite accuse al sistema giudiziario italiano, con esempi e documentazione ineccepibili. 

A scanso di equivoci, nel sottotitolo, il procuratore pretese si scrivesse: “Confessioni di un giudice si sinistra”; poiché - è notorio - le critiche al “sistema” generalmente vengono da destra. Il senso del libello di Tony era raccontare e dimostrare com’era potuto accadere che nella vita della Repubblica una parte della magistratura, cedendo alle tentazioni di trasformarsi in forza politica, avesse esercitato sulla vita pubblica del Paese una clamorosa e incomprensibile supplenza, “in servizio permanente effettivo”.

Sebbene pubblicato da un editore importante come Einaudi il libro circolò in ambiti molto ristretti ed ebbe pochissime recensioni. I giornali - la maggior parte - sempre schierati, a prescindere, con la magistratura, non amano i racconti su quanto di nebuloso c’è nel sistema giudiziario. Tuttavia non mancano le voci fuori dal coro.

Libri sulla storia giudiziaria italiana continuano ad uscire, invocando azioni capaci di limitare “il potere [quello giudiziario] senza freni “che ha tradito il compito assegnatogli dalla democrazia” dice Alessandro Barbano, autore di “L’Inganno” (editore Marsilio), libro dichiaratamente dedicato (è scritto nel sottotitolo) a “usi e soprusi dei professionisti del bene”, che sarebbero, questa volta, nel caso del saggio di Barbano, i giudici dell’Antimafia. Barbano premette: “Chi critica l’Antimafia non fa il gioco dei mafiosi”, che è l’accusa che sovente si fa a chi esprime giudici critici sull’Antimafia.

Il suo scopo, dice, è sollevare il velo sulle contraddizioni della lotta alla mafia, condotta tra sprechi, “pregiudizi dannosi” ed errori clamorosi.

Accade, secondo Barbano - che documenta con dovizia le sue argomentazioni - che si pronuncino sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi, che le pene aumentino, a dispetto del diminuire dei reati, che le procure accrescano il loro potere, fino ad assumere un ruolo politico.

Per il giornalista la pratica di arrestarne cento per condannare dieci, o uno, o nessuno, non è soltanto un metodo investigativo, consentito dalle legge, ma piuttosto “un metodo autoritario, che fa dell’azione penale l’unico racconto di una travagliata transizione del Paese”.

E qui il richiamo è a quella nazione malcerta, dall’unità mai compiuta, in perenne transizione. Pensando a questa fragilità, incompiutezza, provvisorietà, abbiamo fatto all’inizio l’accostamento che può essere sembrato improprio tra questione giudiziaria e questione meridionale.

Ma è lo stesso Barbano in un capitolo del libro a far riferimento a un metodo antimafioso (diritto dei cattivi) introdotto dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti e “riportato in auge dai moderni paladini della giustizia”.

Non c’è salvezza per la giustizia italiana - conclude l’autore -  senza un riscatto profondo dello Stato di diritto in cui venga chiaramente definito il confine tra lecito e illecito, tra il bene e il male, evitando di mettere sotto tutela giudiziaria l’intera società.      


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