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“Dulce et decorum est pro patria mori” — Orazio.
“Dulce et decorum est pro patria mori” — Orazio.
All’alba di questi ultimi giorni, nuovi raid israeliani hanno colpito senza tregua le province iraniane di Isfahan e Fars. I droni hanno centrato non solo obiettivi militari – siti strategici e depositi di armi – ma hanno mietuto vittime civili, amplificando un bilancio di dolore che già conta decine di morti. La guerra aperta tra Israele e Iran, iniziata da meno di una settimana, non accenna a rallentare. È una guerra combattuta su più fronti: oltre ai bombardamenti, si combatte una battaglia mediatica e diplomatica, fatta di parole, omissioni, silenzi e alleanze oscure. Ed è proprio in questo intreccio di dinamiche che si cela la vera gravità della situazione.
Israele non è più isolato. Dietro le sue azioni si staglia l’ombra pesante di un Occidente che non si limita a un tacito assenso, ma si fa promotore e sostenitore esplicito di questa offensiva. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha pronunciato parole che suonano come una confessione: “Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi”. Questa ammissione smaschera un’Europa spaccata tra retorica umanitaria e realpolitik senza scrupoli. Da una parte, la condanna formale; dall’altra, l’appoggio strategico. Tel Aviv bombarda, Teheran brucia, e Berlino applaude dietro le quinte, consapevole di aver scelto la parte di chi vuole mantenere un ordine globale fatto di minacce e aggressioni preventive.
Il bersaglio principale è ormai chiaramente l’Iran, sotto assedio per il suo controverso programma nucleare. Teheran, con le sue capacità atomiche, rappresenta il capro espiatorio su cui scaricare tutte le tensioni accumulate negli ultimi anni tra Washington, Tel Aviv e Bruxelles. L’obiettivo è smantellare ogni possibile autonomia strategica dell’Iran, legittimando ogni tipo di azione, anche la più violenta, come “difesa preventiva”.
Nel frattempo, negli Stati Uniti, Donald Trump continua a cavalcare la crisi con toni duri e senza mezzi termini. Non più presidente, ma tutt’altro che marginale, Trump si muove sulla scena politica come se fosse ancora in carica. La sua retorica bellicista parla di “resa incondizionata” dell’Iran e della necessità di un’azione coordinata con Israele per “eliminare totalmente la minaccia nucleare”. Non si tratta solo di propaganda elettorale: è un chiaro segnale che gli Stati Uniti, o almeno una parte consistente della loro classe dirigente, sono pronti a sostenere militarmente Tel Aviv in un’escalation che potrebbe rapidamente degenerare.
Sul fronte internazionale, la Russia esprime una condanna formale degli attacchi israeliani ma non mette in campo alcuna strategia concreta per fermare l’escalation. La Cina, da parte sua, invita alla calma, mantenendo però una posizione defilata e attendista. L’Europa, infine, appare prigioniera di una paralisi politica che rasenta la complicità. Le dichiarazioni ufficiali sono un richiamo vago alla “moderazione da entrambe le parti”, ma sul terreno diplomatico non si muove nulla di concreto.
L’Italia, in questo quadro, assume un ruolo emblematico. Giorgia Meloni, reduce dall’ultimo G7, ha presentato risultati e una centralità internazionale che sembrano più un esercizio di autocelebrazione che un reale peso geopolitico. Nel dibattito pubblico nazionale, l’attenzione è quasi tutta assorbita dalle riforme elettorali e dalle regole per i referendum, mentre una guerra che rischia di stravolgere gli equilibri globali procede indisturbata. Non c’è una parola chiara né una proposta seria per uscire dall’impasse diplomatica. L’assenza di leadership è evidente e allarmante.
Nel frattempo, il cielo iraniano non è sorvegliato solo dai jet israeliani: satelliti e sistemi di intelligence occidentali monitorano costantemente i movimenti sul terreno, garantendo un sostegno logistico e strategico invisibile ma decisivo. Israele non combatte più da sola: è parte di un meccanismo complesso in cui l’Occidente gioca un ruolo di primo piano, pur mantenendo una facciata di distacco.
Questa guerra, dunque, non è solo un confronto tra due nazioni, ma un pezzo cruciale della strategia geopolitica globale. Il conflitto del 2025 rischia di essere un punto di non ritorno. L’Occidente ha scelto chiaramente da che parte stare, abbandonando ogni tentativo di mediazione e schierandosi senza esitazioni al fianco di Israele. L’Europa, col suo silenzio e la sua passività, si rende complice di un’escalation che distrugge città e vite umane.
Il tempo della diplomazia, se mai c’è stato davvero, sembra ormai scaduto. Il tempo delle illusioni è finito. In questo scenario, rimanere in silenzio non è più un atto di equilibrio o prudenza: è un atto di complicità politica e morale.
Questa escalation tra Israele e Iran non è un semplice conflitto regionale, ma un evento che sta coinvolgendo in modo sempre più diretto l’intero scacchiere internazionale. Il sostegno esplicito dell’Occidente a Israele, unito all’apatia europea, mette in luce una politica incapace di proporre soluzioni di pace credibili, mentre l’America di Trump spinge per un intervento militare ancora più diretto, aumentando il rischio di un conflitto di portata ancora maggiore e potenzialmente devastante.
Se non si cambia rotta in tempi rapidi, la diplomazia sarà schiacciata sotto le bombe, e con essa ogni residua speranza di stabilità globale. Il mondo osserva, mentre si scrive una nuova pagina di violenza e tensione, e l’Europa resta immobile, prigioniera delle proprie contraddizioni e di una scelta politica che si paga, in ultima analisi, con vite umane.