Quanto dura il governo Draghi. Il rischio della ‘’prova d’orchestra’’ di Fellini Il trauma e il travaglio dei 5 stelle.
La frustrazione della sinistra. La ‘’photo opportunity del centrodestra’’ .
di Mario Nanni
Martedì 23 Febbraio 2021
Roma - 23 feb 2021 (Prima Pagina News)
La frustrazione della sinistra. La ‘’photo opportunity del centrodestra’’ .
Il governo Draghi, il terzo o il quarto governo tecnico ( o tecnico- politico), degli ultimi 30 anni, non è ancora completato e già ci si interroga con più o meno malizia: quanto dura? Non è ancora completato, perché manca la nomina dei sottosegretari e vice ministri: il rituale secondo atto della formazione dei governi, che ha sempre acceso nel passato la fantasia dei titolisti: assalto alla diligenza, spartizione selvaggia ecc.

Questa volta che, almeno per i ministri, e non per tutti a dire il vero, il premier ha fatto di testa sua senza sottostare ai diktat dei partiti, chi spera di diventare sottosegretario ha qualche timore in più di non entrare nel governo. Alla fine, come sempre, quando si tireranno le somme si vedrà che il manuale Cencelli è vivo e vegeto e sarà servito a evitare frizioni che è meglio evitare in questa fase.

Per i i più giovani, questo manuale prende il nome non da una raffinata mente di leader politico ma dalla trovata di un funzionario di partito, la Dc, non privo d’ingegno, Massimiliano Cencelli, che aveva elaborato un sistema matematico di spartizione, ops, di distribuzione degli incarichi ministeriali tra le varie correnti del partito, che era grande quanto gli appetiti dei concorrenti.


Poi la sua applicazione fu estesa anche alla distribuzione dei posti di governo tra i partiti alleati. E grazie a questo sistema spartitorio la composizione dei governi avveniva in tempi meno lunghi di quanto sarebbero stati se la spartizione di posti fosse stata affidata a defatiganti trattative. Il governo Draghi, nonostante l’innegabile alone di novità che ha portato con sé in tanti aspetti, non dovrebbe discostarsi troppo dal passato in questo versante dei sottosegretari.

I partiti, che hanno perso un po’ di voce nel primo turno ( nomina dei ministri) la stanno già alzando nel secondo tempo. Prova ne sia che questa incombenza Draghi ha ritenuto di non prendersela su di sé ma di affidarla al suo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, il quale, si presume, svolgerà una istruttoria: contatti con i partiti, raccolta dei desiderata.

Poi, ci mancherebbe altro, l’ultima parola spetterà al premier. Dicevamo dell’interrogativo sulla durata del governo Draghi. Per quanto possa essere prematura, una domanda del genere su un governo che ancora non è completato e sta facendo i primi passi, non è tuttavia oziosa né inutile, se fatta con le migliori intenzioni, eccetto quella di gufare, che sarebbe piuttosto irresponsabile.

Perché, diciamocelo, a scanso di equivoci: se fallisse Draghi, diventeremmo lo zimbello d’Europa, e forse del mondo intero. Se non ce l’ha fatta neanche Draghi, il medico più autorevole e preparato a salvare l’Italia, potrebbero dire in Europa, allora vuol dire che questo Paese è inguaribile.


Non ci piace – intendiamoci - l’idea, ontologicamente parlando, del salvatore della patria, perché restiamo del parere che sventurato è quel paese che ha bisogno ogni decennio di un salvatore, di un ‘’eroe’’, come si è augurato persino l’on. Claudio Borghi, convertitosi come Salvini al draghismo.

Detto questo, è difficile negare che il Paese sia stato affidato, da Mattarella e dal Parlamento che lo ha seguito, al migliore esponente che abbiamo in circolazione. Un tecnico che ha una visione politica, che ha salvato la moneta europea e ora è chiamato a salvare, stavolta direttamente, il suo Paese, whatever it takes, facendo tutto quello che è necessario. Ma può farlo da solo? Certamente no. Ha dalla sua una stragrande maggioranza, quasi l’unanimità degli schieramenti parlamentari, eccetto i dissidenti dei 5 stelle e la dichiarata quanto leale e costruttiva opposizione dei Fratelli d’Italia. Sulla carta Draghi dispone di truppe a iosa. Variamente motivate, però. Per un paradosso della politica italiana, che ci ha abituati a tante anomalie, i più entusiasti di Draghi non stanno a sinistra, che pure è da sempre europeista e favorevole all’euro, ma a destra e nel centrodestra che, fatta eccezione per Forza Italia, ancorata al partito popolare europeo, sono passati dalla proposta di uscita dall’euro a posizioni comunque euroscettiche nel duplice senso della moneta e dell’Unione europea.

Draghi si sarà certamente compiaciuto non senza un sorriso di certe conversioni, ma la politica, come ha insegnato Machiavelli, è realtà effettuale: se Salvini plaude a Draghi, se Bagnai e Borghi gli si rivolgono come scolaretti deferenti verso il professore, bisogna prenderne atto e non fare processi alle intenzioni. Nella politica contano i fatti, conta la predictability, come ama dire l’on. Scalfarotto, di Italia viva, che ama i termini inglesi, per dire semplicemente affidabilità.

Sul drappello renziano, che si vanta, non del tutto a torto, di essere stato la levatrice del nuovo corso, Draghi non ha motivo di nutrire dubbi: l’intendenza: seguirà. Qualche problema, anche serio, potrà venire dai partiti della vecchia maggioranza contiana. In primis dai 5 Stelle. Per loro l’uscita di scena di Conte è stato vissuto come un trauma. Dopo Conte, non c’era altra personalità pentastellata a sostituirlo per proseguirne la politica, come faceva la Dc degli anni d’oro?: se con i socialisti entrava in collisione Fanfani, scendeva in campo Moro, oppure Rumor.

I 5 stelle pagano, in questa significativa occasione, la scarsità di personale politico di rango. Ora il Movimento è in pieno travaglio: perso Conte come premier, ha scoperto di aver perso il suo punto di ancoraggio, e ora pare un volgo disperso che nome in cerca d’identità da trovare o ritrovare. Ma ha perso anche posizioni chiave di ministeri di peso, e di colpo ha avuto il terrore di diventare irrilevante. Ma finché non ci saranno nuove elezioni, il Movimento 5 stelle resta pur sempre la prima forza parlamentare (Salvini dice che è la Lega, precisando però: nel Paese; ma quelli sono al momento solo sondaggi, non seggi).

Il travaglio dei 5 Stelle va rispettato e capito: anche la consultazione sulla piattaforma Rousseau, schematicamente, ha rivelato una doppia anima: quella movimentista, delle origini, i duri e i puri, timorosi delle contaminazioni e dei compromessi, e l’ala governista, che ha in Di Maio il suo massimo interprete, ma anche il suo più intelligente esecutore. La figura di di Maio va depurata degli aspetti folcloristici e canzonatori del personaggio.

Nel ‘’Piccolo Principe’’ è scritto: l’essenziale è invisibile agli occhi. E’ un invito a non fermarsi alla superficie, agli sfottò per i congiuntivi sbagliati e per lo scambio di Matera per una città pugliese. In questi anni, Di Maio, bisogna dargli atto, è cresciuto: dal tempo in cui chiese, in un talk show! , l’impeachment di Mattarella per il fatto di avvalersi del suo potere costituzionale di nominare i ministri ( non volle nominare Paolo Savona ministro dell’Economia), ne è passata di acqua sotto i ponti. Dal 2018 a oggi .

Forse il personaggio sarà pure animato da quello che potremmo chiamare ‘’empirismo senza principi’’, ma ha mostrato in alcuni tornanti della politica italiana degli ultimi quattro anni qualità di pragmatismo, realismo, al di fuori di qualsiasi ideologismo paralizzante. Questo forse è il suo limite ma anche la sua virtù politica: è stato capace di farsi concavo e convesso; ha detto sì al governo gialloverde, poi, con qualche nostalgia verso Salvini, il governo giallorosso.

Dopo la decisione di Mattarella, ha fatto appello al Movimento chiedendo responsabilità e maturità. Per questa scelta, il movimento 5 stelle è la forza politica che paga il prezzo più alto: divisioni, ribellioni, espulsioni in massa, evento peraltro inusuale nei partiti politici italiani; di solito erano pezzi di partito che se ne andavano, facendo scissioni, di cui è costellata la storia centenaria della sinistra italiana ( proprio quest’anno sono cento anni dalla scissione di Livorno quando un pezzo cospicuo del Partito socialista si staccò e si costituì in Partito comunista d’Italia, poi diventato Pci).

Di Maio, tra un viaggio e l’altro all’estero, dovrà sudare le famose sette camicie, che porta sempre molto ben stirate, per tenere unito un movimento in parte riottoso e scontento, tentato durante le votazioni che ci saranno in Parlamento, dal votare contro i provvedimenti del governo.

C’è chi pensa e spera che con una maggioranza così numericamente imponente il governo Draghi smetterà la deplorevole prassi dei governi precedenti di far approvare le sue leggi a colpi di voti di fiducia. Che bisogno ci sarebbe, del resto, se l’opposizione quasi non esiste?

E invece vogliamo scommettere che i voti di fiducia continueranno a esserci?: ma perché? Perché l’opposizione di fatto potrebbe covare nelle file della stessa maggioranza. Torneranno a farsi vedere i franchi tiratori, della migliore, si fa per dire, tradizione democristiana? Resta da esaminare l’animus politico che alberga nei due partiti della sinistra: il Pd, e la piccola formazione di Leu, Liberi e uguali, che pare aver perso la sua ragion d’essere ( contrapposizione al Pd allora renziano) che lo spinse a fare la scissione nel 2017.

Nelle file del partito di Zingaretti questo nuovo corso non suscita entusiasmo, per due motivi almeno: gli è caduto addosso dal Colle più alto di Roma e il gruppo dirigente piddino si è dovuto acconciare; ma gli è caduto addosso perché la strategia del duo Zingaretti-Bettini aveva portato la situazione politica in un vicolo cieco.

Dire: o Conte 3 o elezioni, quando pure un bambino sapeva che le elezioni non ci sarebbero mai state, non solo per la pandemia ma anche per importanti scadenze ( recovery plan) che un governo debole o dimissionario mai avrebbe potuto onorare, ha significato auto inchiodarsi a una strategia senza via d’uscita.

Renzi avrà fatto i suoi errori a incaponirsi contro Conte, ma lo stesso avvocato del popolo ha mostrato seri limiti di carisma e capacità negoziale ( per le sue supposte capacità negoziali era stato paragonato a Moro, figuriamoci) , ed è caduto nella trappola ‘’ mai più con Renzi’’, seguito in queste capriole dal duo Zingaretti –Bettini che poi hanno dovuto rimangiarsi prima il ‘’mai più con Renzi’’ e poi il ‘’mai con la Lega’’.

Prima che Mattarella si risolvesse a chiamare Draghi come ultima spiaggia, forse c’era ancora un sentiero stretto da percorrere. Che poteva passare anche attraverso la richiesta Pd di cambiare cavallo a Palazzo Chigi, o una trattativa che servisse a smascherare Renzi. Nulla di tutto questo è stato fatto.

A sinistra hanno fallito, portandosi addosso nel precipitare anche Conte e il suo governo. Draghi ha avuto l’eleganza di dire in Senato che il suo arrivo non significa il fallimento della politica. Ed è vero. Ma se di fallimento si deve parlare, a fallire è stata la strategia dei partiti della sinistra e dello stesso Conte, non la politica tout court.

In fondo, la scelta sofferta ed estrema del presidente Mattarella come la vogliamo chiamare se non politica nel senso più alto e nobile della parola? Una scelta che punta a salvare il Paese chiamando l’uomo meglio attrezzato a farlo, non è una scelta politica? Quindi di quale fallimento vogliamo parlare? Semmai di leadership che hanno fatto errori.

Draghi del resto non l’avevano invocato negli ultimi tempi alcuni esponenti dei vari partiti? Ma lo invocavano con lo stesso entusiasmo con cui si possono invocare i barbari. Conte, quando i giornalisti che spesso sono monelli, gli facevano il nome di Draghi, rispondeva con degnazione o diceva che l’aveva trovato stanco.

E Di Maio? riuscì a raccontare la più divertente ‘’barzelletta inconsapevole’’ quando disse: Ho incontrato Draghi e mi ha fatto una buona impressione. Frase che ispirò una gag di un sacerdote calabrese, don Agostino:’’ E’ come se io, cari parrocchiani, vi dicessi: ho incontrato il Papa, e al posto di dire: spero di essermela cavata, di non aver fatto brutta figura, invece vi dicessi: ho incontrato il Papa e mi ha fatto una buona impressione.

Al che uno di voi potrebbe dire: don Agostì , te l’ha dato uno schiaffo il Papa? No? allora te lo do io’’. In tutti gli argomenti sopra illustrati, si potrà ricercare la risposta al quesito iniziale: quanto durerà il governo Draghi?

A favore della durata giocano alcuni fattori: l’investitura del presidente della Repubblica; la consapevolezza delle forze politiche, almeno espressa a parole, che la situazione è grave e seria, e che il Paese deve uscire al più presto dal tunnel della pandemia e della crisi economica.

Gioca a favore, ovviamente, la statura del presidente del Consiglio, alcune novità di metodo di lavoro, la sobrietà, il diverso stile di comunicazione, una novità assoluta rispetto all’ubriacatura mediatica e autoreferenziale dei governi precedenti, la capacità di visione larga, che si preoccupa non dell’oggi, non del domani ma anche del dopodomani, gettando lo sguardo al 2026 ( ultimo anno del Recovery), al 2030.

Fanno sperare gli annunci di riforme urgenti, che riguardano il lavoro, la sanità, la liberazione dalle pastoie burocratiche, la giustizia, il fisco. Vasto programma, direbbe De Gaulle, che richiede non un anno, due anni, ma una legislatura, se basta. I problemi di Draghi saranno tanti, ma ne indico due principali: la maggioranza che lo sosterrà lo appoggerà convintamente o comincerà presto a sfilacciarsi vanificandone l’opera?

I tanti musicisti di questa orchestra che è la nuova ampia maggioranza eseguiranno lo spartito musicale che il direttore Draghi indicherà? Oppure ognuno suonerà la sua musica, come in Prova d’orchestra di Fellini?

L’altro problema è il tempo a disposizione di Draghi; questo tempo non è certo lui che lo può decidere: logica vorrebbe che il suo programma scavalcasse non solo la elezione del nuovo presidente della Repubblica, fino almeno alle elezioni del 2023. Magari con un Mattarella bis, che, finora recalcitrante, potrebbe accettare per un paio d’anni di restare al Quirinale, se le forze politiche fossero ovviamente d’accordo, per lasciar continuare a Draghi il lavoro di ricostruzione del Paese.

Almeno fino alle elezioni del 2023. Dopo, chissà. Fantapolitica?: se alle elezioni del 2023 vincesse il centrodestra, La Lega e Forza Italia potrebbero chiedere a Draghi di continuare, se avranno visto di aver lavorato bene insieme.

Ma certo non sarebbero d’accordo Fratelli d’Italia: come potrebbero volere un Draghi 2 se hanno votato contro il Draghi 1? La Meloni, come si dice nel gioco della dama, sarebbe ‘’chiusa’’. Questo è non l’ultimo dei motivi che fanno ritenere politicamente, in una prospettiva di lungo respiro, poco lungimirante non aver colto lo spirito di unità nazionale proprio dei momenti difficili di un Paese in crisi.

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