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Quando, dopo averli ritrovati, ho deciso di pubblicarli, “I diari di mio padre” mi diedero una dimensione diversa del mio grande genitore che, partito militare nel 1938 era rientrato a casa quasi dieci anni dopo. Li avevo letti da bambino, poi da ragazzo, ora adesso.
Erano stati tre momenti diversi. Da bambino, mi aveva colpito l’ordine, la grafia, la precisione ma anche il contenuto. E’ stato da ragazzo che mi sono reso conto di cosa avesse patito mio padre nel suo servire la patria. Da grande è stata tutta un’altra cosa, da qui la decisione della pubblicazione, anche dopo aver sentito l’importanza che rivestiva il “non dimenticare”.
Da bambino, mi sembrava di leggere – sono quattro quaderni che usavano gli studenti anglosassoni per i compiti- la storia di un’altra persona, affascinante ma non coinvolgente, precisa nei dettagli ma che non mi faceva battere il cuore. Cose che mi sono accadute finite le scuole medie.
Man mano che andavo avanti, a parte l’inizio che non ho mai più dimenticato “in una sera di settembre 1938, in una di quelle sere calme e tranquille, una carrozza tirata da un cavallo baio, una carrozza tirata da un cavallo baio, si presentava alla mia porta. Agostino, il vetturino di casa, aveva fatto sentire la sua voce…. Mio padre aveva 22 anni ed era maestro elementare.
Partiva per Cesena, per assolvere al servizio militare, lasciando soli a casa, a San Ferdinando, gli anziani genitori, che pur avendo avuto dieci figli, erano tutti via dalla casa di famiglia, la maggior parte emigrati nelle lontane Americhe, qualcuno sposato. Lui partiva in treno dalla stazione di Rosarno. Non era -né sarebbe stato- l’unico a cui era toccata questa traversìa.
Era partito lasciando in lacrime mamma e papà. Il viaggio in treno? Immaginabile. La Romagna, non immaginabile, men che meno la caserma Decio Raggi, della città romagnola. E da qui tutte, proprio tutte, le giornate trascorse fuori casa.
Il viaggio … addio monti…la vita in caserma, le marce, le libere uscite, le ragazze, l’attesa per la lettera della mamma. Qualche permesso, qualche licenza premio, i lunghi mesi di caserma, poi? Poi niente più se non l’attesa notizia della destinazione, ultimati i mesi di servizio militare. Milano, Trentino, il Veneto? Col batticuore, visti i giorni dell’attesa, mio padre torna a casa in licenza. Dopo un giorno arriva la cartolina destinazione.
Era in busta chiusa, mio padre si preoccupa. E ne aveva ben donde. Viene destinato in Libia a fare il sottotenente dell’esercito, dopo aver brillantemente superato l’esame di fine corso A.U.C – allievi ufficiali. Quella partenza non aveva nulla da poter paragonare con la precedente per Cesena. Questa per Tripoli. Chi piangeva, in casa, chi sorrideva, da tanti lo “stai sereno e tranquillo”, da altri parenti “divertiti” e via di questo passo.
Solo mia nonna, leggerò vent’anni dopo, si era messa in un cantuccio a piangere. Scriverà Vittorio Zucconi, da me contattato, alla lettura dei diari, non si può che rimanere ammutoliti di fronte a queste pagine. Lui lo aveva fatto ascoltando le lettere del caporalmaggiore Augusto Tibaldi, padre della sua morosa. D’altro canto, cosa si fa, se in un libro di duecento pagine, si leggono, o meglio si vivono quasi dieci anni di lontananza da casa, servizio militare, guerra, prigionia, vita di stenti.
E se poi quelle cose le vivi attraverso il racconto, attorno ad un braciere, del protagonista? Se le vivi attraverso il racconto è più emozionante certamente, ma se le leggi, non puoi che piangere a dirotto perché ti sembrano romanzi o favole inventate. Invece è tutto vero.
“Per almeno due generazioni, quelli che la guerra l’avevano fatta ed i loro figli che se la sarebbero sentita raccontare per anni, com’è avvenuto a me, è stata occasione di discussione e di ricordi, anche fino a qualche anno fa, od almeno fino a quando chi – ed in questo caso mio padre- aveva fatto la guerra, ed in particolare la seconda guerra mondiale”, è sopravvissuto.
Avendone avuta la possibilità di leggere i diari di mio padre, Marcello Sorgi, editorialista della Stampa, mi ha scritto di ave ascoltato per la seconda volta le sensazioni e la “progressiva perdita di dignità e di fiducia in sé stessi”da parte di quanti avevano partecipato e straperso la guerra.
Incluso lo strazio della prigionia da parte degli inglesi che avevano spedito mio padre nel campo di concentramento di Yol, dov’era rimasto fino al 1946. Era partito, solo per il servizio militare, nel 1938. E mio padre fu prigioniero, dopo l’armistizio, non dei nemici, ma di quelli che nel frattempo erano diventati alleati dell’Italia.
Era rassegnato mio padre, lontano da casa, senza affetti, senza aver mai ricevuto quanto da casa gli veniva spedito, senza l’abbraccio di mamma e papà, nonostante armi, guerre, feriti, morti. Fino alla Liberazione, avvenuta quando la speranza del ritorno a casa, da tenue era completamente perduta, quasi un anno dopo la fine della guerra. Ed oggi si parla ancora di conflitti, vicini e lontani.