Bookdown..."Il Virus della lettura..." a cura di CARMINE CASTORO
La Neo-gleba all’epoca del Covid.
Nel segno di Kracauer e De Beauvoir.
(Prima Pagina News)
Giovedì 23 Settembre 2021
Roma - 23 set 2021 (Prima Pagina News)
La Neo-gleba all’epoca del Covid.
Nel segno di Kracauer e De Beauvoir.

Ce ne stiamo accorgendo in questa buia fase di “pandemia” da covid e di misure coercitive da green pass. Se lo Stato vuole raggiungere i suoi obiettivi sulle masse – almeno per quello che sta succedendo in Italia – aggira bellamente i dettami costituzionali, rinfocola un’idea di “emergenza” ormai ampiamente superata da bollettini e statistiche giornalieri, gira costantemente il mestolo nel paiolo della incolumità personale e familiare a rischio, va avanti a provvedimenti anti-parlamentari e dispone l’opinione pubblica secondo traiettorie pseudo-nazionaliste, moraleggianti e di un’abominevole retorica auto-conservativa. Lo psico-potere così tratteggiato è innanzitutto una grande Lavatrice dei nessi logici, e non più una Levatrice del pensiero e della razionalità.

Subito dopo l'effetto linguisticamente annichilente diventa la Grande Fogna di opinionismo becero, corruzione e manipolazione mediatica, dunque uno stato confusionario che dimentica la materialità dei rapporti e delle cause e si immerge solo nell’acqua ragia di parole stanche e reiterate. L'ultimo atto è la Piramide del consenso, che cauterizza la paura collettiva, crea mattanza sociale, polarizzazione delle posizioni in campo senza un Logos comune, e giustifica le bastonate delle oligarchie.

Sembrerebbe assurdo e paradossale trovare le radici marce di questa forma attualissima di dominio tutta basata su una Neo-Gleba sottomessa ai diktat che vengono dall’alto, distratta e intrattenuta da massmedia e lustrini della mondanità, nella Germania degli anni Trenta dello scorso secolo.

Eppure tutto è già contenuto in nuce in Impiegati di Siegfried Kracauer (Meltemi): un saggio-reportage del sociologo tedesco che pone al centro della sua ricerca la middle-class del periodo, ovvero quadri aziendali, bancari, dattilografi, piccoli burocrati, segretarie, capi-reparto, quelli che banalmente e con un leggero tocco di sprezzo definiremmo anche i “passacarte” dei nostri palazzi, che incontriamo agli sportelli degli uffici, dietro i banconi e le scrivanie, quelli che hanno preso qualche titolo di studio in più e vorrebbero distinguersi dal semplice tecnico, dal manovale, dall’umile lavorante, dal classico proletario.

Come ebbe a dire Luciano Gallino nelle note introduttive alla prima edizione italiana: “Kracauer seppe cogliere per primo la dolorosa normalità delle nuove classi medie, né dirigenti né operai, non più piccoli proprietari o professionisti, non ancora alti burocrati ma nemmeno semplici scrivani; semplicemente, il mezzo della piramide, quello che non essendo né base né vertice non ha neanche diritto a un nome”.

Davvero non troviamo attinenze con la nostra traviata contemporaneità, italiana e non solo, che ci riconduce dentro le fila di un gregge globalizzato sempre più impersonale e negletto?

Questi ex “sottufficiali del capitale” che si ritrovano sempre più soldati semplici, poco considerati dai comandanti e pieni di ripulsa verso i ceti più bassi della gerarchia sociale, sono la coscienza infelice di un più vasto mondo borghese che collassa e vede incrinato il suo lavoro “intellettuale” e formatore, il suo lavoro di “concetto”, sicché l’assorbimento del loro status e delle loro funzioni pubbliche e private verso un volgo sottopagato, senza più grossi ideali e con scarsissime possibilità di carriera, sembra essere l’esito più mesto e vacillante.

La forza piallante cui sottostanno è la sterilizzazione dei comportamenti e del sentire come conseguenza di una feroce razionalizzazione delle loro prestazioni lavorative, che ritrovano una inaudita muscolarità sotto il giogo di macchine che gestiscono i tempi di produzione, selezione, tabulazione, archiviazione. Fantasmi di se stessi, brulicanti di nostalgia e disincanto, fomentati nei loro istinti anti-solidaristici, immersi in una comunità che “è pura apparenza”, in loro, dice Kracauer, “continua a vivere lo spettro di una condizione borghese scomparsa.

Essa contiene forse delle forze che vogliono legittimamente perdurare. Ma oggi perdurano solo in modo pigro e inerte, senza entrare in un rapporto dialettico con le condizioni dominanti, e in questo modo minano la stessa legittimità della propria sussistenza”.

Ovvero, come sottolinea anche Maurizio Guerri in una bella postfazione al testo, gli impiegati sono incapaci di ergersi a elemento consapevole e sovvertitore dell’esistente, e dunque sono la più cupa e cruenta dimostrazione che il Capitale non ha vinto con forche e patiboli, ma con un processo di naturalizzazione del profitto e del controllo, che perpetua il presente, lo mette in circolo grazie anche a quel “”continuum” immagine-realtà cui già alla fine degli anni Venti il sistema mediatico sembra essersi uniformato”, rimarca Guerri.

Cioè il frastuono dei divertissement post-fabbrica, dei luoghi di socialità incantevole e ingannevole dove si trascorre il tempo “libero”, le competizioni sportive organizzate dai capitani d’industria per coinvolgere agonisticamente i dipendenti e succhiar loro anche l’energia atletica in chiave anti-sindacale, gli scintillii dell’industria cinematografica, i localetti dove si beve la sera circondati dalle plastiche oleografie di luoghi esotici dove non ci si potrà mai permettere di andare con le proprie risicate finanze, le cinghie di un consumismo già massivo che incanta e incatena i desideri all’universo parallelo della rassegnazione e dell’oblio magico. Davvero non troviamo attinenze con le nostre libertà, i nostri diritti amputati e incanalati verso il tema della Salute pubblica, della Scienza che tutto può, dello Spettacolo della vita e della morte che esonda giornalmente dai nostri schermi, della Politica che fa il bene della povera gente ammalata e insicura?

Essere “spiritualmente senza tetto”, dentro l’imbuto di un “neopatriarcalismo” che crea le relazioni interpersonali in base alla mera ratio economica, storditi da “mezzi di diversione e narcotici di ogni specie” garantiti scientificamente da una capillare opera di “colonizzazione” delle anime, davvero ci sembrano dagherrotipi novecenteschi che hanno perso ogni luce ed effetto oggi, sepolti dall’avanzata trionfalistica della nostra Super-Modernità?

 



Kracauer scrive co-implicando due registri, quello dell’analisi sociale e quello della compenetrazione empatica nel destino infausto del personale-marionetta del Sistema, e ne esce una sorta di inchiesta filosofica, di letteratura militante, di giornalismo sociale di grande fascino.

Un approccio che ricorda quanto ebbe a dire in un dibattito del ’64 Simone De Beauvoir, la compagna di una vita di Jean-Paul Sartre, pubblicato in una brillante raccolta di saggi inediti dell’autrice engagé dal titolo La femminilità, una trappola (L’orma Editore). Azione e svelamento del mondo, di una configurazione particolare e storicamente situata di un mondo, sono i fulcri dell’attività meditativa e scritturale di un pensatore, secondo la De Beauvoir.

Non c’è opera senza irripetibile posizionamento, ricerca soggettiva, rivisitazione delle strutture politiche e relazionali, smascheramento delle fughe, immersione nella dimensione tetra e gioiosa, scompensata e infinitamente creativa della condizione umana.

“Se la letteratura cerca di oltrepassare la separazione nel punto in cui sembra invalicabile, allora deve parlare dell’angoscia, della solitudine, della morte, poiché sono proprio tali situazioni a rinchiuderci definitivamente nella nostra singolarità. Abbiamo bisogno di sapere, di constatare che queste esperienze sono le stesse di tutti i nostri simili. Il linguaggio ci reintegra nella comunità umana”.

E qui miracolosamente, sapientemente Siegfried e Simone si sposano, contro il potere destituente e anti-dialettico della più banale informazione o evasione letteraria.

Il reportage fotografa la vita, ci dice il filosofo tedesco, mentre noi dobbiamo cercare la 
Konstruktion, la costruzione di un mosaico fatto di contenuti, strati geologici della vita, dinamiche conosciute, scandagliate, pennellate come in un “ritratto”.

La romanziera parigina chiama tutto questo un “volteggiare” di esperienze singolari che si avviluppano e si lanciano in un divenire attraverso la parola e le immagini, senza la mistificazione di una presunta interezza, di una totalità sempre perfetta e conchiusa alla quale soggiacere.

E invece, siamo precipitati in un mondo matematico e algoritmico che conta vivi e morti come vacche e suda dati spacciando grafici di virologi per la tavolozza di un pittore. 


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