Eccellenze Italiane. Gli Angeli della Protezione Civile Italiana in Sierra Leone

Questa è la cronistoria di un’operazione di aiuti internazionali tra Italia e l’Africa, in Sierra Leone, dopo la violentissima esplosione che il 6 novembre scorso ha provocato nella città capitale di Freetown 100 morti e altrettanti feriti. E tra i primi a intervenire, per la Protezione Civile Italiana una giovanissima chirurga plastica della Sapienza di Roma, Paola Parisi, che oggi dedica questa sua impresa al padre medico che non c’è più, e al suo maestro, il prof. Diego Ribuffo Direttore dell’unità operativa complessa di chirurgia plastica al Policlinico Umberto Primo di Roma.

di Pino Nano
Giovedì 06 Gennaio 2022
Roma - 06 gen 2022 (Prima Pagina News)

Questa è la cronistoria di un’operazione di aiuti internazionali tra Italia e l’Africa, in Sierra Leone, dopo la violentissima esplosione che il 6 novembre scorso ha provocato nella città capitale di Freetown 100 morti e altrettanti feriti. E tra i primi a intervenire, per la Protezione Civile Italiana una giovanissima chirurga plastica della Sapienza di Roma, Paola Parisi, che oggi dedica questa sua impresa al padre medico che non c’è più, e al suo maestro, il prof. Diego Ribuffo Direttore dell’unità operativa complessa di chirurgia plastica al Policlinico Umberto Primo di Roma.

Alle 18.14 del 6 novembre scorso il primo teck dell’Agenzia giornalistica ANSA fa il giro di tutte le redazioni del mondo. “Almeno 99 persone sono morte in seguito all'esplosione avvenuta la scorsa notte a Freetown, capitale della Sierra Leone, provocata dallo scontro tra un'autocisterna piena di carburante e un tir in una stazione di servizio. I feriti ricoverati in ospedale sono un centinaio. ll rogo che si è scatenato dopo l'esplosione si è propagato in tutto il quartiere circostante, provocando vittime nelle auto vicine e in diverse strade adiacenti. Secondo la ricostruzione di un soccorritore, la maggior parte delle vittime sarebbero venditori ambulanti e motociclisti rimasti uccisi mentre cercavano di recuperare del carburante fuoriuscito dall'autocisterna”.

La BBC propone invece le prime immagini in diretta, e dalle quale si coglie con mano che tra le vittime colpite dall’esplosione e devastate dalle ustioni del fuoco ci sono purtroppo decine di donne madri e bambini. È una tragedia senza pari. “Sono addolorata nell'apprendere di un'esplosione lungo Bai Bureh Road, Wellington, dopo che un camion che trasportava carburante si è scontrato con un altro camion- dice il sindaco di Freetown, Yvonne Aki-Sawyerr. - I video e le foto che fanno il giro dei social media sono strazianti”.

Sarà invece il portavoce dell'Agenzia nazionale per la gestione dei disastri, Mohamed Lamrane Bah, a dare l’idea esatta del bilancio del disastro e parla di una marea di feriti, molti dei quali in condizioni davvero critiche.

Scatta l’allarme internazionale. Il governo locale chiede aiuto al resto del mondo, in Africa non ci sono chirurgi plastici che sappiano affrontare il dolore e le ferite causate dalle fiamme, mancano medicinali adatti, mancano strutture, mancano centri specializzati per la ricostruzione dei tessuti, le camere iperbariche sono solo un miraggio e l’unica speranza per la Sierra Leone è che qualcuno risponda al loro “Mayday”. Si mobilitano le strutture operative della Organizzazione Mondiale della Sanità che a loro volta coinvolgono i Dipartimenti di Emergenza dei vari Paesi stranieri. In Italia la richiesta di collaborazione finisce sul tavolo della Sala Operativa della Protezione Civile, che a sua volta coinvolge i maggiori ospedali italiani. Nel giro di poche ore sono già pronti i primi team specialistici pronti per partire per l’Africa. Anche in questa occasione l’Italia arriva prima degli altri. E tra gli specialisti chiamati in aiuto dei cento feriti c’è soprattutto l’Unità di Chirurgia Plastica del Policlinico Universitario di Roma diretto dal prof. Diego Ribuffo. Che a sua volta chiama una delle sue allieve più brave, la dottoressa Paola Parisi. “Se la sente di partire per l’Africa dottoressa? C’è tanto lavoro laggiù per noi e la Sierra Leone ci chiede di correre in aiuto dei loro feriti”. Passano solo pochi giorni, e la giovane chirurga è già a Fiumicino pronta per partire. Tappa intermedia e scalo a Casablanca, da qui Casablanca-Freetown, e quindi di corsa in ospedale.

35 anni appena compiuti, calabrese, nata e cresciuta tra Crotone e Le Castella, in una casa che si tuffa nel mare più azzurro e più pulito della Calabria, figlia d’arte nel senso più bello della parola, suo padre medico, Eugenio Parisi, era uno dei neonatologi più famosi del Crotonese, un amore dichiarato e infinito per il suo cane, il ricordo ancora vivo dei suoi compagni di classe al liceo scientifico “Filolao” frequentato fino al giorno della maturità, un fratello, Luca, che oggi vive a Pisa e una carriera universitaria brillantissima appena avviata e ancora tutta da vivere.

Paola Parisi, in primissimo piano nella foto qui in alto, oggi ricercatore di tipo A presso la Sapienza, Università di Roma, in attesa di strutturazione ospedaliera presso il Policlinico Universitario Umberto Primo, per potersi dedicare più intensamente all’attività chirurgico-assistenziale “che amo tanto”, è uno degli “Angeli della Sierra Leone”, uno dei chirurgi plastici italiani intervenuti sul luogo di una immane tragedia, a lenire ferite e dolori provocati dalle fiamme di un’esplosione che ha messo in ginocchio lo Stato africano.

-Dottoressa da chi, e come, è stata contattata per questa missione internazionale?

“Dal mio professore, Diego Ribuffo. Che è anche il mio maestro. Mi ha chiamato e mi ha spiegato che c’era da partire immediatamente per la Sierra Leone. Più o meno sapevo, per averlo sentito qualche giorno prima in televisione dell’esplosione che aveva interessato la città capitale di quello Stato, ma non avevo idea di quello che in realtà avrei trovato una volta arrivata in Africa”.

-Cosa ha risposto al suo professore?

“Sono pronta. Non c’era altra risposta possibile o alternativa. Sono nata e cresciuta a casa di un medico che curava i bambini, e ogni chiamata per mio padre, anche la più banale, era importante. Quando ti chiamano per assistere un malato non puoi che dire “Sono pronta”. A prescindere da quello che ti aspetta, e che troverai una volta partita e arrivata sul posto”.

-Che esperienza professionale è stata?

“Importante, fondamentale, un vero e proprio banco di prova per un chirurgo chiamato ad affrontare un’emergenza così delicata e complessa come questa. Quando il professore mi ha chiamato ho capito subito che sarebbe stato impossibile dire di no, anche se avevo in programma tante altre cose da fare, non solo come medico ma anche nella vita privata e familiare. Il mio compagno, Giuseppe, per fortuna mi ha supportato molto, non ha neanche provato ad ostacolarmi, anzi ha condiviso in pieno la mia scelta. Allora mi sono solo detta, “Fermi tutti”, al resto ci pensiamo dopo”.

-Dottoressa lei è partita per l’Africa subito dopo l’esplosione?

“Provo a ricostruirle quella prima fase. L’esplosione si verifica il 5 novembre e immediatamente il Ministero della Salute della Sierra leone ha chiesto aiuto al resto del mondo. Per l’Italia è immediatamente intervenuta la protezione civile, che ha diviso la missione in tre turni diversi da dieci giorni ciascuno. Sono stati quindi organizzati e resi operativi tre team specialistici, e io sono partita l’ultima settimana con il terzo team di lavoro.

-Tutti partiti dalla sua Università, dall’Umberto Primo di Roma?

“No. I chirurghi plastici che hanno preso parte alla missione provenivano da tutt’Italia, dall’Ospedale Niguarda di Milano, dal Campus Biomedico di Roma e dal Policlinico Universitario Umberto I, da me rappresentato. L’anestesista che invece è partita con me e ha fatto parte integrante del mio team, la dottoressa Stefania Lepori, è invece partita dall’Ospedale di Parma, ma non è emiliana. È una straordinaria ragazza sarda. Bravissimo medico. Posso solo dirle che dietro un’emergenza di questo tipo e dietro la preparazione dei nostri team di intervento si è mossa una macchina organizzativa imponente e perfettamente oleata.

-Che situazione avere trovato quando siete arrivati sul posto?

“Lo scenario che ricordo e che abbiamo trovato non era certo quello della prima ora e dei primi giorni. Noi siamo arrivati in Africa a distanza di venti giorni circa dall’esplosione e moltissimi casi erano stati già ampiamente trattati dai colleghi che erano arrivati prima di noi. Rispetto alle lacerazioni della prima ora, o alla distruzione dei tessuti per via delle altissime temperature di una esplosione, io ho trovato pazienti da ricostruire, ferite ancora da pulire e medicare per il rischio di complicanze infettive. La stragrande maggioranza dei pazienti, in parte già precedentemente trattati, presentavano ustioni su gran parte del corpo ed è stato necessario ripristinare di volta in volta, in maniera progressiva, parte del tessuto interessato. Sono situazioni di una delicatezza e di una complessità fuori dal comune e il più delle volte neanche immaginabili. Parliamo di ustioni che hanno coinvolto in media più del 20 per cento della superficie cutanea, il che vuol dire casi di grande complessità”.

-Qual è la stata la difficoltà maggiore che ha incontrato?

“Abbiamo dovuto intervenire su pazienti gravi senza però l’aiuto dei presidi che abbiamo noi in Europa e che ci sono magari nel resto del mondo occidentale. A causa dell’assenza di una banca di tessuti, sostituti cutanei e medicazioni avanzate, l’unica possibilità di intervento erano medicazioni frequenti, e prelievi di tessuto cutaneo autologo, dallo stesso paziente quindi”.

-Dottoressa immagino che non abbiamo neanche una camera iperbarica?

Non hanno camere iperbariche e neanche camere sterili per i grandi ustionati. L’ospedale di Emergency in cui abbiamo operato è sicuramente l’ospedale più avanzato e moderno della Sierra Leone, ma non specializzato nella cura dei grandi ustionati. La degenza dei pazienti era comune in una singola camerata, peraltro senza aria condizionata, e quindi con il rischio reale di continue infezioni. Già in Italia il trattamento degli ustionati è già lungo, immagini cosa significa dover lavorare in queste condizioni. Per molti dei pazienti che avevano in cura servono anche tre o quattro mesi per coprire tutte le ferite interessate dal fuoco, intuirà la difficoltà complessiva del nostro compito e della nostra missione. Io per fortuna ho trovato alcuni casi già in via di guarigione, altri casi invece molto meno semplici, pazienti in cui la gamba, per esempio, aveva sviluppato una infezione grave, e avevano necessità di pulizia più accurata e di medicazioni in sala operatoria molto frequenti. Alcuni casi erano quindi già pronti per essere ricostruiti, altri casi che invece necessitavano ancora di ulteriori medicazioni, o di rimozione di tessuto necrotico. Ma le dico di più, credo che oggi in tutta la Sierra Leone ci sia un solo chirurgo plastico, non di più”.

-Che tipo di pazienti ha trovato? Si è parlato subito di molte donne e bambini…

“In realtà i pazienti che ho trovato in ospedale avevano un’età media di 18-20 anni, non di più, ma consideri anche che in Africa l’età media della popolazione è ancora molto bassa. In ospedale ho sentito parlare di un’età media di 40-45 anni in tutto, non oltre”.

-Ricorda i casi più disperati e comunque più difficili?

“Due pazienti con coinvolgimento degli arti inferiori, che non è stato possibile ricostruire a causa della presenza di infezione batterica, che avrebbe danneggiato e reso fallimentare l’innesto cutaneo. Per uno di questi pazienti non avevamo a disposizione molte sacche di sangue, a causa del suo gruppo sanguigno, considerato raro in Africa. Avevamo tre bambini molto piccoli, che non venivano dall’esplosione del 5 novembre. Si erano ustionati con olio bollente, acqua calda, soda caustica, insomma situazioni complicatissime. Il bambino più piccolo aveva sei mesi, l’altro due anni, e il terzo tre anni”.

-Dove siete stati sistemati voi medici italiani?

“All’ospedale di Emergency a Goderich, Freetown. Tutti i team italiani hanno prestato la propria opera in questa struttura”.

-Qual era la sua giornata tipo in ospedale?

“Semplice. Sveglia molto presto, non oltre le sei del mattino. Poi in ospedale per il primo meeting operativo con il team internazionale, ognuno relazionava e discuteva del programma della giornata e delle cose da fare, e poi in corsia per il giro visite, dalle nove in poi in sala operatoria per tutto il resto del giorno”.

-Momenti di stanchezza? O se preferisce di sconforto?

“Avevamo giornate troppo piene, e durante una giornata di intenso lavoro la stanchezza non si percepisce mai se non alla fine della giornata forse. Ci pensa l’adrenalina a mandarti avanti. Turni di lavoro pesantissimi, si. A volte massacranti, anche. Ma io e la mia collega anestesista abbiamo portato tutti i pazienti che avevamo in sala operatoria. Anche quelli che necessitavano di semplici cambi di medicazione, perché sono pazienti che quando vengono trattati hanno molto dolore. Vanno quindi comunque sedati. Pensi che in sala operatoria portavamo una media di cinque pazienti al giorno, e non è poco”.

-Dottoressa ma quando siete partite dall’Italia sapevate già cosa vi avrebbe aspettato?

“In questo la macchina della Protezione Civile è stata perfetta. Già nei giorni prima di partire ci eravamo collegati con l’ospedale di Emergency in Sierra Leone per capire bene dove saremmo andati a lavorare e in che condizioni lo avremmo fatto. Quindi il primo impatto che abbiamo avuto via Skype ci ha dato perfettamente l’idea che la nostra non sarebbe stata una semplice passeggiata nel parco. E fin qui tutto bene. Poi la Protezione Civile mi ha anche messo in contatto con la chirurga che aveva lavorato prima di me e che mi ha spiegato con esattezza e assoluta precisione cose mi sarei dovuta aspettare di trovare”.

-È vero che dall’Italia vi siete portati dietro anche i medicinali necessari?

“Sì. Nonostante l’ospedale, come ho già detto, sia all’avanguardia per la Sierra Leone, non è specializzato nella cura degli ustionati. Dai vari ospedali e dalla Protezione Civile sono stati portati strumenti chirurgici e farmaci, antibiotici, collagenasi, creme antibiotiche topiche, insomma quello che era fondamentale avere per i casi che avevamo in cura”.

-Che tipo di assistenza avete trovato voi invece come medici italiani in missione?

“Semplicemente impeccabile, meravigliosa. Noi siamo arrivati dall’Italia in Sierra Leone e abbiamo trovato ad attenderci in aeroporto il delegato del Console Italiano, che ci ha preso per mano e ci ha aiutato a risolvere ogni forma di passaggio burocratico. Noi siamo arrivati in Africa alle due di notte. Dopo aver sbrigato tutti i passaggi burocratici abbiamo preso la navetta locale che ci ha portato direttamente al porto di Freetown, da cui abbiamo preso un water-taxi per raggiungere la parte opposta della baia dove si trovano gli alloggi a noi destinati e l’ospedale di Emergency”.

-Vi hanno sottoposto anche al classico tampone Covid?

“Assolutamente sì. Hanno verificato che avessimo fatto tutti i vaccini richiesti per chi mette piede per la prima volta in Africa, anche il tesserino giallo per la febbre gialla”.

-Si è mai sentita sola o abbandonata in questa missione?

“Assolutamente no. Avevano con noi dei funzionari della Protezione Civile che non ci hanno mai lasciato soli. Se avessimo avuto bisogno di qualunque cosa sarebbe bastato chiedere, e tutto si sarebbe materializzato come un sogno. Veramente indescrivibile la macchina organizzativa che avevamo alle spalle”.

-So che al rientro in Italia il suo Direttore era molto fiero del suo lavoro laggiù…

“Il mio professore è una persona stupenda, un grande professionista con una grande umanità. Credo di averlo reso orgoglioso.”

-Se la richiamassero e le chiedessero di tornare in Sierra Leone di nuovo lei ci ritornerebbe laggiù?

“Assolutamente sì, e anche di corsa. Vede, mentre in Italia siamo in tanti e il mio lavoro lo può fare un altro chirurgo plastico, lì sei sola con te stessa, con il paziente davanti che ti chiede aiuto, e lì ti senti davvero fondamentale e utile a qualcosa e a qualcuno”.

-Quando si pensa a un chirurgo plastico si pensa al mondo dei VIP, alla chirurgia estetica. Questa sua è una situazione completamente diversa?

“Quando mi sono iscritta a medicina e ho scelto di fare chirurgia plastica, l’ho fatto perché dopo mille discussioni con mio padre, che faceva il medico, oggi purtroppo non c’è più, mi sono convinta che la chirurgia plastica è una branca vastissima della chirurgia generale, che mi avrebbe offerto mille possibilità diverse di lavoro sul campo. La chirurgia plastica non è solo chirurgia estetica; il chirurgo plastico ha una conoscenza vastissima e dettagliata dell’anatomia umana che gli consente di intervenire su tutti i distretti corporei coinvolgenti i tessuti molli. Al Policlinico Umberto Primo noi oggi ci concentriamo molto sulla ricostruzione della mammella nelle donne colpite dal cancro, sull’ortoplastica per pazienti con traumi degli arti inferiori e infezioni ossee. È una chirurgia quindi che risolve mille problemi importanti e la parte ricostruttiva da davvero grandi soddisfazioni, aiutando non solo funzionalmente ma anche psicologicamente il paziente. È la branca a cui io ho dedicato finora gran parte del mio tempo e la mia formazione”.

-Dottoressa a chi dedica tutto questo suo lavoro?

“A mio padre, che se n’è andato prima di vedermi partire per la Sierra Leone. Ne sarebbe stato fiero, ne sono certa. E poi a mia madre, Rosa, che spero ora di portarmi qui a Roma a vivere con me, con il nostro amatissimo cane”.

-Come dire? Siamo tutti apolidi ormai?

“Non tutti per fortuna, ma moltissimi lo sono”.


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