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Maurizio Riccardi: "La fotografia dovrebbe essere un lavoro, con regole deontologiche e professionali".
Maurizio Riccardi: "La fotografia dovrebbe essere un lavoro, con regole deontologiche e professionali".
"Ogni maledetto fotografo ferma un attimo, una storia. È scomodo, ed è allo stesso tempo indispensabile. Osannati e maledetti, questi fotografi ci mostrano la verità scomoda: le stragi che molti vorrebbero cancellare, le ferite che qualcuno preferirebbe dimenticare. Hanno l’ostinatezza di far vedere quello che accade.
Molti di loro, come Maurizio Piccirilli, si sono nascosti per scattare immagini uniche: il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, fotografie rubate a rischio della propria vita, costretti poi a fuggire per non vedersi sottrarre il proprio lavoro. Quelle immagini, che non dovevano uscire, sono diventate un monumento storico, un manifesto di denuncia contro il terrorismo e la fine della politica.
Altri, come Rino Barillari, sono stati picchiati e maltrattati, eppure oggi sono testimoni di un mondo irripetibile, quello della “Dolce Vita”, insieme ai grandi Tazio Secchiaroli, Marcello Geppetti, Carlo Riccardi, Gioacchino Cantone, Roberto Bonifazi, Piero Ravagli nel mondo politico e tanti altri.
Quanti articoli, quante storie sono nate dalle immagini e dai racconti di quei maledetti fotografi!
Oggi si parla molto di libertà di stampa, ma troppo poco di libertà per il lavoro fotografico. Chi fa questo mestiere si trova ancora in zone di guerra o in situazioni di grande rischio. Quei “maledetti fotografi” avevano un’etica, erano professionisti, iscritti all’AIRF, la prima associazione di categoria, nata nel 1966.
Oggi invece siamo circondati da immagini: tutti fotografi e nessun fotografo. Il potere dello smartphone ha trasformato la fotografia in un flusso continuo, ma senza regole, senza memoria, senza il riconoscimento di un lavoro.
Credo che la fotografia andrebbe insegnata nelle scuole, non solo come tecnica, ma come educazione dello sguardo. Non giudico la libertà di ciascuno di fotografare, ma una domanda mi tormenta: cosa resterà di tutto questo rumore digitale? Un’altra domanda: non era forse un lavoro? E se lo era, non dovrebbe ancora esserlo, con regole deontologiche e tutele professionali? Allora scompare il lavoro e resta solo il rumore.
Salviamo questo mestiere. Salviamo i milioni di immagini disperse, diamo visibilità agli archivi, ridiamo un nome ai fotografi che stanno diventando fantasmi. Restituiamo dignità ai giovani, oggi sfruttati con compensi ridicoli.
L’Italia, il Paese della bellezza, deve molto a chi ha saputo raccontare il bello e il brutto. Eppure tutti parlano di fotografia — istituzioni, enti, aziende — ma resta il buio: nessuno vuol vedere che questo è un mestiere, che gli archivi stanno sparendo, che la memoria si sta spegnendo. Accendiamo la luce.
Basta con questo buco nero culturale. Apriamo gli occhi e lasciamo entrare nella nostra società quelle storie scritte con la luce della fotografia".
E' quanto ha scritto sui social Maurizio Riccardi.