La crisi di Governo. Tra “nave dei folli” e “ndo cojo cojo”.

Per spiegare la “strana” crisi italiana si potrebbe partire per metafore, cominciando col rintracciare la storica rappresentazione carnevalesca della “nave dei folli”: nota in Germania, e in tutta l'Europa Settentrionale fin dall’Alto Medioevo, un’allegoria della instabilità, della precarietà e della insensatezza della condizione umana.

di Mimmo Nunnari
Lunedì 25 Luglio 2022
Roma - 25 lug 2022 (Prima Pagina News)

Per spiegare la “strana” crisi italiana si potrebbe partire per metafore, cominciando col rintracciare la storica rappresentazione carnevalesca della “nave dei folli”: nota in Germania, e in tutta l'Europa Settentrionale fin dall’Alto Medioevo, un’allegoria della instabilità, della precarietà e della insensatezza della condizione umana.

Oppure, con lo stesso titolo, potremmo cercare di capire il significato del dipinto La nave dei folli (1494) del pittore olandese Hieronymus Bosch: una creazione pittorica che diventò opera letteraria grazie ad un libro dello scrittore tedesco Sebastian Brant pubblicato nello stesso anno della esecuzione del quadro. L’imbarcazione dipinta da Bosch trasporta personaggi grotteschi, rappresentanti delle istituzioni che avevano potere decisionale sull’esistenza dell’individuo. I folli, sono posti dall’autore sopra una nave che viaggia verso il nulla, in preda alle manipolazioni dei rappresentanti del potere.

E’ bella e alquanto verosimile la corrispondenza tra quanto succede in Italia e le allegorie, artistiche e letterarie, dell’Europa che fu. Ma, diciamolo francamente, sarebbe un’interpretazione elitaria e troppo colta, un medaglione metaforico che l’Italia attuale, smarrita e mediocre, non merita, per cui meglio scendere con i piedi per terra e guardarci allo specchio (o nella coscienza, chi ce l’ha) per capire dove stiamo andando nel Paese nato malcerto, spaccato dall’inizio della vicenda unitaria in due parti: il Nord e il Sud. Siamo rimasti Provincia, non siamo mai diventati Stato, siamo una società fondata sugli antagonismi e incapace di comportarsi come nazione. Tuttalpiù ci arrangiamo, per cui il termine giusto per spiegare quanto accaduto con la crisi del Governo Draghi, e capire la cifra stilistica e culturale della politica italiana, dobbiamo cercarlo, più che in metafore, in colorite espressioni della vita romanesca, come ndo cojo cojo che letteralmente significa “dove prendo prendo”. Ecco, la raffinata strategia di M5S, Lega e Forza Italia è stata quella del ndo cojo cojo che caratterizza la stagione che stiamo vivendo ormai da tempo, almeno da quando è finita la mai rimpianta abbastanza Prima Repubblica lasciandoci in eredità legioni di mediocri personaggi, campioni della fenomenologia del ndo cojo cojo, logica del faccio ciò che mi conviene per allargare i consensi elettorali.  

Il risultato, relativamente alla convenienza di certe azioni, lo vedremo al termine delle elezioni. Può, però, risultare all’opposto del desiderio; saranno gli elettori a decidere. Vedremo quale sarà il giudizio su Conte, Salvini e Berlusconi, tre uomini travestiti da statisti: l’avvocato con l’erre arrotolata di Volturara Appula, il leader collezionista di felpe e l’uomo stagionato sempre più somigliante al vecchio della favola di Esopo che aveva due amanti: una gli strappava i capelli neri, l’altra quelli bianchi, e alla fine rimase calvo.

Il marchio stilistico di questa legislatura morente lo troviamo in quell’espressione in romanesco doc della senatrice M5Stelle Paola Taverna, vice presidente del Senato:  Oggi li sfonnamo de brutto”.  

Non è stato  il massimo dell’eleganza linguistica (nessuno può pretendere che la senatrice abbia frequentato l’Accademia della Crusca)  ma ha reso bene la qualità dei rappresentanti del 5Stelle. Sfonnamo (rompiamo) come scapoccià (perdere la testa) o ndo cojo cojo (dove prende prende) sono le più colorite espressioni della parlata romanesca nelle borgate, in osteria, o allo stadio e ora sdoganate nella Politica e nei dintorni del Parlamento. Questo è parlare alla pancia delle gente, si dice, e tanto ha fatto la senatrice pentastellata. Non è che abbia il copyright del parlare virile: da camallo, da cafone, da ultras, poiché non le è stata di meno la sua collega, deputata dello stesso movimento, che durante un’infuocata assemblea 5S avrebbe detto: “Se lo specchio non può sputarvi, allora forse potrebbe iniziare a farlo qualcuno di noi…”. Da sputare, erano i colleghi colpevoli di essere pro Draghi. Insomma -  come sta scritto sulla Treccani - se l’uno è maleducato, o volgare, l’altro non minchiona, cioè non è meglio del primo. Non ci scandalizziamo certo, ma prendiamo atto che urla e linguaggio maleducato hanno da tempo in Parlamento e nella politica preso il sopravvento. Cosa che può succedere quando mancando le idee l’alternativa non possono che essere gli improperi. Del resto, le parolacce sono lo “specchio del Paese”, diceva in un’intervista a La Presse il linguista Tullio De Mauro, scomparso nel 2017, a 84 anni. Lo spunto per quell’intervista era stato l’insulto rivolto dal senatore Maurizio Gasparri (Forza Italia) a un giornalista definito handicappato. Le volgarità e gli insulti dei politici - spiegava De Mauro - non sono la causa, ma l’effetto, di una tendenza generale del Paese. Dal punto di vista del linguista le pessime abitudini dei politici inclini alle parolacce, al turpiloquio, ormai esteso al mondo dei media, coprono la scarsa capacità di usare le risorse più appropriate della lingua italiana.

Le esternazioni della Taverna e della sua collega hanno dei precedenti. Molti, a cominciare da Grillo e della sua originaria pattuglia pentastellata hanno elevato a cifra stilistica, anzi a programma politico, il parlare alla pancia degli elettori.  

Se in passato la lingua della politica suonava astrusa, o troppo compassata, o così settoriale da permettersi di infrangere le regole della geometria con le celebri “convergenze parallele”, oggi - dice Giuseppe Antonelli, linguista e accademico -rumoreggia volgare e schietta”. Si è passati, cioè, dal “paradigma della superiorità”, a quello del “rispecchiamento”, provocando l’abbassamento del livello stilistico del discorso politico per omologarlo a quello medio-basso di una certa lingua quotidiana. Tempo fa Francesco Damato per la rivista “Formiche” scrisse una guida (breve) degli insulti e delle volgarità in politica. Si va da Palmiro Togliatti, segretario del Pci, che negli anni Cinquanta voleva cacciare il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi a “calci nel sedere”, all’Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord che definiva i suoi critici “scoregge nello spazio”. Ma sono stati i “vaffa” di Grillo a istituzionalizzare l’era degli insulti e delle parolacce fino ad arrivare al ndo cojio cojo o al “vi sputiamo in faccia”, bandiere di questa legislatura che non sarà certo rimpianta, semmai ricordata per la sua insulsaggine.

 

 


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