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Quanto sangue da ambo le parti! E quante lacrime versate da madri, mogli, fratelli, sorelle!? Ma nessun accordo risolverà la questione palestinese se non si pone un freno alla strapotente industria delle armi.
Partiamo dall’inizio della storia.
Nel Vicino Oriente, nelle terre che da secoli si sono chiamate Palestina, sono da sempre vissute “tribù” di arabi e “tribù” di ebrei. I loro rapporti sono stati più o meno sempre di convivenza a volte semisincera, a volte forzosa, che portava a scaramucce, scontri o guerre di breve durata che alla fine producevano rancori e propositi di rivalsa. Ma così si è andato avanti per lungo tempo.
Guerre guerreggiate e scontri molto violenti hanno avuto inizio subito dopo la fatidica data del 29 novembre 1947, quando le Nazioni Unite decisero che in Palestina dovevano nascere 2 stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo. In sostanza la decisione fu presa per dare agli ebrei, vittime del nazismo e del fascismo, una terra dove realizzare uno stato tutto loro. Come prevedibile, i palestinesi non gradirono tale decisione. Per un motivo molto semplice: si sentirono defraudati di parte delle loro terre. A loro volta ebrei da tutto il mondo, spinti dal fardello delle loro traversie, si trasferirono colà rapidamente e il 15 maggio 1948 proclamarono lo stato d’Israele.
Agli israeliani, i quali, sostenuti da subito dagli Usa, dettero vita a un stato unitario con i fiocchi, si contrappose la Lega araba, composta da tutti i Paesi arabi, tra diversi dei quali non era mai scorso buon sangue.
Fu così che in queste condizioni presero l’avvio le guerre arabo-israeliane. Guerre avvenute negli anni 1948, 1956, 1967, 1973 che hanno avuto un solo vincitore, Israele. Anche in questo caso il motivo è molto semplice: gli israeliani erano stati forniti di armi moderne e potenti e la chiamata alle armi di tutta la popolazione giovanile senza distinzione di sesso, aveva fatto sì che avevano messo su forze armate efficientissime. Per cui si può dire che a fronte di un esercito superdotato e organizzato si contrapponeva una sorta di armata brancaleone (nella guerra del 1967 gli israeliani trovarono nel deserto del Sinai migliaia di scarpe dei soldati egiziani costretti a ripiegare) spinta a battersi per un popolo non da tutti loro amato, i palestinesi.
Una razza, un popolo, quello palestinese, molto fiero e orgoglioso che non ha mai fatto comunella con gli altri Paesi arabi. Persino con i giordani, il cui piccolo grande re, Hussein, chiese loro di diventare cittadini del suo Paese per non essere “maltrattati” dagli israeliani. Molti palestinesi, pur accogliendo l’“invito” del sovrano hashemita, non hanno mai avuto remora a sottolineare la diversa identità. Infatti se ancora oggi si chiede a un palestinese che vive in Giordania a quale Paese appartiene, la risposta è: di passaporto sono giordano, di cuore palestinese.
Ma torniamo al conflitto Palestina-Israele e agli scontri di questi giorni tra i palestinesi di Hamas e l’esercito israeliano.
Se è vero che Israele è il baluardo e il controllore degli Usa in Medio Oriente, è altrettanto vero che altri Paesi, dalla Russia alla Cina, la Turchia, l’Iran, vedono nei Paesi arabi possibili alleati per l’incremento della loro potenza politico-militare. Di qui la vendita e l’invio di armi sempre più potenti e devastanti. E non solo agli stati nazionali, ma anche e soprattutto a quei soggetti, a quegli organismi che praticamente con le armi non ottengono alcun risultato positivo, bensì soltanto distruzione, terrore, morte. Morte spesso, anzi spessissimo, di bambini, vecchi, donne che, pur in condizioni disagiate e oppressive, ritengono che non sia la guerra a risolvere i loro problemi.
Quello che sta avvenendo in questi giorni, infatti, non è un guerra tra due Stati, bensì uno scontro molto violento cui ha dato inizio un organismo palestinese, Hamas, che ha reagito alla ennesima occupazione di terre arabe da parte di coloni israeliani. Hamas, parola che vuol dire zelo, spirito combattente, è l’acronimo arabo di “movimento di resistenza islamica”. Un movimento che non riconosce lo stato d’Israele, anche se in più di una occasione suoi dirigenti si sono dichiarati pronti a riconoscerlo e a smettere la guerriglia qualora Israele riconosca lo stato palestinese consentendo a tutti i suoi cittadini di tornare nelle terre occupate dagli israeliani dopo la guerra del 1967.
E veniamo alla potente industria delle armi e ai suoi “signori”. “Signori” che negli Stati Uniti danno un contributo tutt’altro che irrilevante alla elezione del presidente. “Signori” che non si preoccupano affatto dei danni e delle vittime che possono fare le armi anche in un paese che dovrebbe essere la culla della democrazia. E, difatti, essendo negli Usa il commercio delle armi libero o con ridicole restrizioni, chiunque può acquistare armi di tutti i tipi e spargere terrore e sangue dappertutto, nelle strade, in locali aperti al pubblico e persino nelle scuole.
Finiamo con due “perle” della potenza dell’industria delle armi.
La prima: mentre era in corso l’embargo di qualsiasi prodotto da vendere alla Libia del despota Mu’ammar Gheddafi, accusato di essere il mandante dell’ abbattimento di un aereo della Pan Am che fece 270 vittime, si scoprì che Bill Carter, fratello minore del Presidente Jimmy Carter, vendeva armi ai libici.
La seconda: la guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran dell’ayatollah Khomeini, durata 8 anni (1980-1988), e costata oltre un milione di morti, equamente ripartiti tra l’una e l’altra parte. Entrambi i Paesi combatterono con armi americane e russe. Quelle americane lasciate in eredità a Khomeini dal defenestrato scià Reza Pahlavi, e donate agli iracheni per combattere il terribile ayatollah che odiava gli Usa. Quelle russe offerte direttamente all’Iraq e fatte pervenire all’Iran attraverso la Siria. Il motivo della guerra: i confini tra i due Paesi che alla fine dell’immenso spargimento di sangue restarono inalterati.