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Se Monica Vitti, la grande mattatrice che se ne è andata proprio ieri lontano dai fari e dai fragori dello star-system, aveva ben fotografato le miserie e le frustrazioni dell’avanspettacolo in Polvere di stelle con Alberto Sordi al suo fianco, quale occasione migliore per ritrovare nello scialbo festival di Sanremo di quest’anno, Sarajevo di ogni estetica, un firmamento fatto di stelle in polvere, nel doppio senso di archeologia e ossario da un lato, per i redivivi Morandi Ranieri Zanicchi, e latte e biberon dall’altro, per i tanti signor nessuno lanciati indiscriminatamente nella categoria “big”?
Ecco a voi, siore e siori, gli stucchevoli esibizionismi dei muscoletti di Achille Lauro, le patetiche profanazioni dei simboli sacri per far rigirare nella tomba i veri “maledetti” dell’800, tatuaggi a go go, bimbetti usciti da Tik Tok che provano a irradiare carisma dalla loro poppante pseudo-artisticità, canzoni al succo di valeriana, amorevoli fino alla nausea, maschere anziane di un passato che fu che possono solo offrire le rancide risonanze di un sentimentalismo fuori dalla storia, le trasgressioni studiate a tavolino, il mosaico delle partecipazioni e delle ospitate per accontentare tutte le factory televisive, tutti i pubblici dei social affamati di vippismo a buon mercato.
Un repertorio che prende alla bocca dello stomaco, se non fosse che sta scorrendo ancora lì, per l’ennesima volta, sugli schermi, in platea nel solito popolino che sfoggia completi da uomo craccati dalla panza e décolleté da marchesine del suburbio, e su un palco che pretende di essere l’anima pop delle grandi masse, lo specchio della società – come si diceva una volta -, mentre ne risulta solo il lago di Narciso dove dentiere e nuove timidezze, reputazioni di plastica e l’occhietto al profitto, la coazione a ripetere del presenzialismo d’antan e l’autoglorificazione del cucciolo che si crede un leone della savana, convivono in una maionese impazzita buona per condire alcunché.
Con una Orietta Berti a furoreggiare, vestita da uno stilista drogato, evidentemente, che martedì sembrava una via di mezzo fra un asteroide e un pokemon fulminato e ieri una sciantosa da bettola parigina.
Come a dire, ecco a voi l’anteprima del Carnevale che, non a caso, può trovare una scossa linguistica solo se ci si tuffa nell’afa bastarda di una realtà che asfissia tutti: il virus, la pandemia, le restrizioni, le discriminazioni dentro una ex Repubblica come la nostra, nel giorno in cui lo Scià Draghi rende illimitato il green pass per i “salvati”, condannando ad un altrettanto illimitato inferno i “sommersi” che non hanno prestato l’avambraccio a una Politica patria e a una Scienza che delle certezze, della sapienza e della terzietà di giudizio hanno fatto da due anni strame di porco.
A Fiorello deprecabilmente “draghizzato”, col braccetto secessionista che irride violentemente a chi non si è fatto somministrare il siero di “lunga vita” - considerando ancora una volta questa cospicua parte della popolazione italiana composta da poveri derelitti della ragione, seguaci di code di rospo e ali di pipistrello -, ha fatto seguito un Checco Zalone che alla sua solita maniera, seppur molto contratto e poco incisivo talvolta, ha “dragato” l’orrido doppiopesismo dell’italiano medio che indossa la maschera del pudore e poi va a trans, e del “virologo cugino di Al Bano”, che dopo una vita passata ad essere parente di, finalmente trova l’aura del successo scavalcando gli estetisti nella classifica dei sanitari che rasentano l’insignificanza.
Come imporre a un poverocristo del genere di tornare nell’anonimato delle sue provette? Meglio la carcerazione degli increduli.
E sì che il sarcasmo del campione di incassi cinematografico ci restituisce un barlume di senso, una leggera, sopportabilissima infiltrazione di luce collettiva: nel Paese dei Balocchi e della Demenza, dove tutti, ricchi e poveri, hanno paura di ammalarsi, i veri re sono quelli che giocano a rimpiattino con la paranoia della gente, con i poteri che si autogiustificano e con il loro amor proprio, inseguendo una malattia che ammanta ogni egoismo disgustoso, rendendo un balsamo il business più malvagio.
E che vaccino sia, allora, ma dalla sozzura di questo infingardo buonismo, e dalla puzza di quei bauli stantii dove le vecchie compagnie teatrali di giro seppellivano l’onore e la verità, sperando solo nei riflettori della ribalta più radiosa. Come la Vitti ci ha insegnato, lei stella fra le vere stelle, più fulgida che mai proprio ora che la piangiamo.