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Chi la vuole cotta, chi la vuole cruda. Ed intanto il tempo passa, abbiamo superato i sessanta giorni di guerra. E non parlano solo gli ucraini o i russi. In Occidente, America compresa, c’èanche chi la vuole con i se e con i ma. Viene in soccorso, come sempre, la Chisa.
Domenica scorsa, all’Offertorio, il celebrante della Santa Messa non ha detto più “scambiatevi un segno di pace” (quando eravamo da anni abituati al ad una disattenta stretta di mano).
Causa covid, forse, ha invece esclamato al microfono uno “scambiatevi uno sguardo di pace!” Meraviglia delle meraviglie, anche perché, a mio parere, lo sguardo è più intenso e se ne può scambiare molti di più.
Sono gli occhi per qualche attimo i protagonisti della voglia di pace. Un attimo, però. Siamo sul finire del sacro rito e poi a casa. Probabilmente a pranzo o cena. E dello sguardo ce ne siamo dimenticati perché la guerra ha campo libero e da due mesi costituisce “l’apertura dei telegiornali” che ci accompagnano durante i pasti.
Quei pasti che quanti – e non pochi- sono impegnati in guerra non consumano più. Dilaga, la guerra, senza alcun antidoto possibile, anche se in Italia ed in Europa, non solo nel secolo scorso, abbiamo fatto l’impossibile per evitarla e costruire i mondi dei diritti e dei doveri.
Chi non ricorda l’esame di diritto pubblico o di diritto costituzionale? Cosa sono i diritti, cosa i doveri? Quali i diritti dei popoli? Ognuno di noi lo sa, e finge di averlo dimenticato, proseguendo imperterrito nella scansione delle notizie che Monica Maggioni, Barbara Palombelli o Enrico Mentana, indirettamente o direttamente danno e certamente curano, ad altissimo livello. Ci alziamo, sapendo di non aver potuto far nulla, se non esprimere, a voce o in silenzio, il nostro assenso o dissenso su quell’azione contro Kiev o Mariupol.
Sappiamo anche che abbiamo gettato le basi per impedire, forse, altro di più sconvolgente ( l’atomica) ma preferiamo non pensare e ci limitiamo ad osservare le nostre colf o le nostre badanti di Leopoli che piangono e si disperano, hanno paura per le loro famiglie ed i loro uomini in guerra. Anche noi abbiamo paura. Ma ce lo diciamo, chi più chi meno, nel segreto del nostro cuore.
Non possiamo esternarlo, non riusciremmo, ma soprattutto non vogliamo. Ed intanto la logica, sì la logica, della guerra non si arresta. E noi andiamo in piazza a manifestare per la pace, spesso inascoltati perché la politica non ha ancora raggiunto il suo acme. Perchè anche la fine della guerra è un atto politico. E fino a quando non si concretizzerà, le armi continueranno imperterrite nel loro grido di morte.
Abbiamo studiato, abbiamo fior di diplomatici e di esperti di e su tutto, ma le armi, come scriveva Gigi Malafarina, fanno sentire il loro “canto della lupara” che oggi è di kalashniKov o di un’altra diavoleria di morte, assolutamente cieca, che non guarda in faccia nessuno.
Certo c’è la Russia da un lato, soggetto invasore, dall’altro l’Ucraina che si difende, in mezzo noi, muti e, forse, commossi. Guardiamo la tv, ascoltiamo Luana Cremasco al Gr che minuto dopo minuto, ci fanno ascoltare e soffrire con le notizie, sui bambini ed i civili morti. “L’errore, dice Ezio Mauro, sta nel pensare che “il no alla guerra ed il sì alla pace possa assorbire ogni altra espressione politica, ma non è così.
Lo chiama “errore della neutralità”, Mauro! Invero non possiamo far nulla. Cosa d’altro? Non possiamo, non abbiamo le capacità, se non di scegliere per chi parteggiare. E purtroppo non basta, dice ancora l’editorialista più illustre di Repubblica, perché siamo costretti ad essere come “il cavaliere Ponzio Pilato”.
E’ vero, non possiamo fare altro, non siamo in grado, obtorto collo. Possiamo e dobbiamo non arrenderci, dice il presidente Mattarella, perché “la pace deriva dal non essersi arresi di fronte alla prepotenza”, proprio oggi, 25 aprile che ricorda la fine della guerra, la sconfitta nazifascista.
“I morti per la libertà dell’Ucraina non potranno non vincere anche con” l’ausilio concreto delle nostre coscienze armate”. Dopo la guerra, deve venire la pace, abbiamo gridato in coro alla Marcia Perugia-Assisi.