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Lo scorso giugno è uscito nelle sale “Elvis”, che il regista Baz Luhrmann ha dedicato al re del rock ‘n roll. Il suo Elvis non è infatti solo lo showman per eccellenza né il sex symbol senza tempo che tutti conosciamo. Oltre ciò, egli è prima di tutto un ragazzo smarrito, continuamente alla ricerca di casa, mentre intorno a lui si solidifica una gabbia dorata dalla quale, come noto, è stato sempre più difficile sfuggire.
Interpretazione eccellente del cast, soprattutto dei protagonisti, “Elvis” interpretato dal giovane Austin Butler, una vera e propria rivelazione; si apprezza lo studio accurato e sensibilizzato delle sue tipiche movenze, espressioni e profonda intimità e del formidabile Tom Hanks nei panni dell’enigmatico manager dell’artista, il Colonnello Tom Parker. L’attore è superlativo nel caratterizzare il suo personaggio, ora come figura paterna ora come diabolico architetto delle fortune del suo pupillo.
Vengono dunque approfondite le complesse dinamiche tra i due nell’arco temporale di 20 anni, dagli esordi alla fama di Presley, dal rapporto di lui con la famiglia a quello con la moglie Priscilla, dalla formazione del suo mito sino al suo inarrestabile declino. Il tutto proprio mentre gli Stati Uniti e il mondo cambiavano per sempre, perdendo la loro innocenza e dando luogo a rivoluzioni culturali e sociali senza precedenti.
Tornato alla regia a nove anni da "Il Grande Gatsby", Luhrmann realizza con Elvis un film che proprio come il suo protagonista vuole essere “larger than life.”
Un film che va oltre l’ etichetta di biografia e che vuol raccontare il celeberrimo artista con un fare eccessivo ma allo stesso tempo profondo, sgargiante ma anche cupo, il tutto guidato naturalmente da quelle emozioni forti alla base di tutto il cinema del regista australiano.