Giornata della Memoria: riflettiamo per non dimenticare

In occasione della giornata della memoria pubblichiamo una riflessione di Gregorio Corigliano, redatta all’indomani di una visita da lui effettuata, qualche anno fa, al campo di concentramento di Dachau. “Per non dimenticare”.

(Prima Pagina News)
Domenica 27 Gennaio 2019
Dachau (Germania) - 27 gen 2019 (Prima Pagina News)

In occasione della giornata della memoria pubblichiamo una riflessione di Gregorio Corigliano, redatta all’indomani di una visita da lui effettuata, qualche anno fa, al campo di concentramento di Dachau. “Per non dimenticare”.

di Gregorio Corigliano da Dachau

 

Fa gran freddo oggi; in Baviera. Un freddo inusuale per il Sud della Germania. Il sole non c’è all’orizzonte neanche se lo cerchi col binocolo. L’aria è proprio grigia e ti intristisce molto. Proprio le condizioni ideali per riflettere sul passato di quello che è diventato un Paese d’Europa all’avanguardia nel campo economico e sociale.

Com’è possibile, ti chiedi, accennando ad un “window-shopping” riscaldante a Monaco, che in questo Paese siano stati commessi tanti crimini orrendi, sia pure in pieno conflitto mondiale? Ed allora ti vengono in mente i film della guerra nazi-fascista, gli “achtung”, la gestapo, i “kapò”, i campi di concentramento e pensi a cosa può arrivare la barbarie umana.

Belve! Il freddo ti assale ancora di più e ti colpisce dentro, ti fa gelare il sangue nelle vene e non c’è riscaldamento che possa farti tornare il caldo.

Ho sempre inconsciamente desiderato visitarlo un campo di concentramento, non per pura curiosità, naturalmente, ma esclusivamente come momento per riflettere su un passato che ha coinvolto il toto anche il mio Paese, qualche conoscente, lo stesso mio padre. Ah, si. Proprio mio padre che, partito per il servizio militare di leva nel lontanissimo 1936 è potuto tornare a casa solo nel 1946, dieci anni dopo. E meno male che è tornato.

È stato in guerra per dieci anni, si può dire, con le peripezie più nere. Ad un campo di concentramento per sua fortuna, ora posso dirlo, non c’è stato anche se ha scontato dura prigionia in terre lontane, a Kangra Valley, in India. Questi pensieri mi assalgono in un momento di tristezza, mentre solo per le strade della Baviera attendo di incontrare una collega tedesca, conosciuta anni fa proprio a Monaco.

Sono troppo triste per parlare con lei, mi dico. Ed allora rinvio l’appuntamento a momenti più sereni, e a bordo di un trenino locale mai avvio verso Dachau per riflettere, guardando i resti dello stesso lager.

Arrivo che sono le due di pomeriggio. Pioviggina ed il freddo è atroce. Anzi ho la sensazione che man mano che a piedi raggiungo il campo, il freddo aumenti. E non è vero, in effetti. La temperatura è glaciale, ma più o meno costante. Sono io che ho l’impressione di sentire più freddo appena mi avvicino al campo di sterminio. Anche il cielo diventa più buio ed il silenzio tutt’intorno è silenzio di morte. C’è qualcun altro che, come me, si accinge alla visita. Siamo come delle mosche bianche, però.

Il campo è aperto al pubblico perché col contributo dello Stato della Baviera, all’interno, è stato costruito un museo a cura del comitato internazionale di Dachau. Varco il cancello e lo sguardo si perde a destra e a sinistra in mezzo ai resti delle baracche, ai lavabi, ai forni crematori… brr che freddo! Il terreno bagnato dalla pioggerella continua è un pantano, gli alberi sono spogli, il silenzio è totale.

Solo qualche sentinella-guardiano ti “conforta” con il suo sguardo. La Germania, questo grande paese oggi esempio di democrazia, ha voluto lasciare ai posteri, perché riflettano sempre sugli orrori dei crimini nazisti, questo esempio ancora vivente e palpitante di torture. Entro nel museo. Sulla parete nera dell’ingresso viene mostrata l’ubicazione dei più importanti campi di concentramento dell’Europa centrale ed i loro maggiori campi esterni.

Qui a Dachau, essendo stati internati cittadini di quasi tutte le nazioni, vi sono delle stele di legno a rappresentare simbolicamente i diversi Paesi. Nel vestibolo la documentazione sui precedenti storici del Terzo Reich illustra le premesse che condussero al regime di violenza nazional socialista.

Entro nella sala centrale non senza una grossa confusione in testa: non so cosa guardare per primo. L’esposizione comincia con documenti della cosiddetta “presa del potere” del 30 gennaio 1933. Viene mostrata la creazione di questo campo, il 22 marzo 1933, quasi ottant’anni fa, la sistemazione dei detenuti, la loro suddivisione in categorie, la “vita” nel campo (o la morte!?), le punizioni.

Il tutto con fotografie raggelanti sulle SS ed una tabella che reca la scritta “Dachau, alta scuola per la SS nei campi di concentramento”. Particolare spazio è dedicato alla persecuzione degli ebrei e agli esperimenti medici sui detenuti. Nella sala centrale, le fotografie sulle fucilazioni in massa, il trasporto di invalidi che poi venivano uccisi nella camera a gas del castello di Hartheim e la documentazione sul forno crematorio.

Segue poi la “soluzione finale del problema ebraico” progettata dai nazisti ed attuata mediante la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio dell’est. È quasi un crescendo rossiniano dell’orrore e del terrore.

Mi vengono le lacrime per l’intensa commozione che mi assale. Non riesco ad andare avanti, ho la pelle d’oca. Finalmente le immagini sulla liberazione del campo chiudono questa spaventosa rassegna. Anche adesso, mentre scrivo, mi si accapponisce la pelle, al solo ricordo. Un enorme libro con le riflessioni dei visitatori chiude il museo. Do una rapida scorsa al librone sia per leggere le relazioni emotive di quanti mi hanno preceduto, sia per vederne la provenienza. Tutt’Europa, America compresa.

Anch’io vergo qualche considerazione che al momento non mi sovviene, ma ricordo solo la spontaneità della penna… Torno fuori per distrarmi… con il campo vero e proprio, dove avversari politici del nazismo, ebrei, religiosi e cosiddetti “elementi indesiderabili” vi venivano isolati come nemici del regime. Secondo l’ufficio matricolare del campo risultano più di 206.000 i deportati del 1933 al 1945, senza contare il numero rilevante di coloro che non furono registrati.

Prendo la strada centrale del lager: a destra e sinistra i pioppi piantati, dai deportati. Ora ci sono le fondamenta delle quindici baracche – ed una baracca ricostruita interamente a testimonianza imperitura- due baracche che servivano da infermeria, uno spaccio che in realtà, mi si dice, era sempre sprovvisto di tutto, ed una baracca di lavoro.

Una camerata comprendeva un vano soggiorno ed un dormitorio. Un lavatoio ed una serie di gabinetti servivano due camerate. Ogni camerata avrebbe dovuto contenere 52 deportati con un totale di 208 per baracca, ciò solo in teoria. In effetti dopo la violenta espansione del Terzo Reich su tutta l’Europa, affluirono a Dachau, ininterrottamente, convogli di deportati provenienti dai paesi occupati.

Il campo era sovraffollato a tal punto che alcune baracche dovettero contenere fino a 1600 detenuti. Ora non restano che le fondamenta numerate da entrambi i lati della strada del lager: le baracche qualche anno fa sono state demolite perché pericolanti. Arrivo sul piazzale dell’appello: qui mattina e sera tutti i deportati, con qualsiasi temperatura, dovevano radunarsi.

E quando un deportato riusciva ad evadere, l’appello di punizione durava ,per tutti gli altri, almeno una notte ed una mezza giornata. Raggiungo poi il “wirtschaftsgebande” – l’edificio dei servizi, cioè dove era allocato il famigerato “bagno” usato dalle SS per infliggere torture inumane ai deportati. Quindi le fondamenta della baracca n.5 dove il dott. Rascgher effettuava i suoi esperimenti sulla resistenza alla pressione e al freddo, su inermi deportati.

Nella stazione sperimentale per la malaria il prof. Scilling si procurava artificialmente casi di malaria: a queste esperienze sembra appartenessero anche ricerche biochimiche, spesso mortali. Alla baracca sette, era sistemato l’obitorio sempre traboccante di salme. Secondo documenti del servizio internazionale di ricerche a Dachau morirono 31.591 deportati ed inoltre furono giustiziati migliaia di prigionieri non registrati. Tutto il campo era fiancheggiato da un fossato con filo spinato ad alta tensione e le mura del campo illuminate a giorno.

Le SS sparavano senza preavviso dalle torrette di guardia su chiunque si fosse avventurato sullo spiazzo erboso, ad otto metri dal fossato. Una freccia direzionale indica il crematorio. Sono in dubbio se entrarvi. Poi mi decido ma con molta ansia. Vi risparmio la reazione immediata. Addirittura esiste ancora una camera a gas camuffata da doccia, che sembra non sia mai stata usata.

Vi risparmio anche le cifre di quanti furono fucilati e che qui ti comunicano perché ne abbia contezza precisa. Per fortuna alcune chiese costruite negli anni ‘60/70 ti vengono incontro appena esci fuori dai forni.

Ti servono, compresa quella cattolica, dove ti puoi fermare devotamente e spontaneamente per riflettere e pregare. Mi balza in mente mio padre, la sua prigionia in India… ormai è buio, o quasi e mi avvio verso l’uscita.

Non trovo un taxi per la stazione. Telefono da un baretto poco distante: arriva dopo una buona mezz’ora dal paese di Dachau vero e proprio. È un signore sui quarantacinque, gentile e desideroso di parlare.

“Ma come vive a Dachau?” “Ormai qui c’è solo il ricordo di quell’orrore che lei ha visitato – mi dice – e la gente è tranquilla, come potremmo vivere a Monaco, dove gli affitti di case sono alla stelle…? “L’unica difficoltà, per noi, - mi aggiunge – è quando ci spostiamo in macchina: appena vedono la targa “Dachau” povera macchina, se non ce la fanno saltare, la sfregiano.

Ma che possiamo fare? Che colpa abbiamo noi, figli della guerra?” E qualcuno oggi accenna a parlare di guerra…


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