In attesa della lettera del Papa, Enzo Gabrieli racconta: “Il calabrese abate Gioacchino da Fiore che illuminò Dante”
Domani giovedì 25 marzo sarà pubblicata la Lettera Apostolica Candor Lucis æternæ di Papa Francesco, dedicata a Dante Alighieri: il riferimento è al "candore de la etterna luce" che Dante, nel terzo trattato del Convivio, cita dal Libro della Sapienza, e per noi uno degli intellettuali più moderni e più interessanti della Chiesa calabrese, Mons. Enzo Gabrieli, traccia un profilo inedito sul monaco florense e le sue figure nella Comedia.
di Don Enzo Gabrieli
Mercoledì 24 Marzo 2021
Roma - 24 mar 2021 (Prima Pagina News)
Domani giovedì 25 marzo sarà pubblicata la Lettera Apostolica Candor Lucis æternæ di Papa Francesco, dedicata a Dante Alighieri: il riferimento è al "candore de la etterna luce" che Dante, nel terzo trattato del Convivio, cita dal Libro della Sapienza, e per noi uno degli intellettuali più moderni e più interessanti della Chiesa calabrese, Mons. Enzo Gabrieli, traccia un profilo inedito sul monaco florense e le sue figure nella Comedia.
Quando si parla della Divina Commedia e del rapporto con Gioacchino da Fiore si cita, con orgoglio, la notissima espressione della terzina del Canto XII del Paradiso (139-141) “è lucemi da lato il calavrese abate Gioacchino di spirito profetico dotato”.

Tanti hanno colto in questa citazione la sua notorietà e anche la sua fama sanctitatis diffusa già all’epoca del Sommo poeta, altri la sua giusta collocazione fra i grandi maestri nel Paradiso come riconoscimento ed onore tributato per la sua opera e le sue profezie, per quel desiderio di rinnovamento della Chiesa oggi quantomai attuale.

In ogni caso, ciò testimonia che la santità di vita e l’alta teologia del fondatore dell’Ordine florense erano andate ben oltre i confini della Calabria. Come è ben noto, dopo aver illustrato la vita di Domenico ed aver ascoltato nel canto precedente Tommaso che magnifica le gesta di Francesco d’Assisi, i due viri di cui aveva parlato l’abate nelle profezie attribuite per la riforma della Chiesa, (“Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca; / sí che, com’elli ad una militaro, / cosí la gloria loro insieme luca”) è proprio San Bonaventura a presentare a Dante, fra gli altri grandi spiriti che sono accanto a lui nella seconda corona, il fondator dei florensi.

Vengono indicati i santi della prima generazione francescana, poi Ugo da San Vittore, Pietro Mangiatore, Pietro Ispano, il profeta Natan, san Giovanni Crisostomo, sant’Anselmo d’Aosta, il grammatico Donato, Rabano e quindi l’abate.

All’influenza di Gioacchino sull’opera e gli scritti del grande santo e riformatore dell’Ordine francescano Bonaventura il giovane Joseph Ratzinger (il grande teologo e futuro Benedetto XVI) dedicherà sei secoli dopo il suo lavoro di dottorato dimostrandone chiaramente i forti riferimenti e il grande contributo all’impianto concettuale. Ma c’è da aggiungere che la terzina non resta una secca citazione, c’è chi sostiene infatti che l’Alighieri richiama o lascia intravedere proprio in essa la confessione di una certa illuminazione “e lucemi da lato” da parte del monaco calabrese.

In un altro studio approfondito, e supportato da materiale documentario ancora in parte inedito, emerge che Dente traduce ed armonizza in poetica l’antifona delle Lodi dell’Ufficio del fondatore florensi che era già in uso. Questa informazione è quanto mai importante per avere conferma, insieme ad altre, dell’esistenza di una officiatura propria dell’abate cantato “beato” dai suoi monaci, ma indicato come tale nella Raccolta dei bollandisti e in tantissime altre fonti librarie e pittoriche.

Anche gli studi Liber figurarum, prestigioso Codice gioachimita, hanno portato dantisti e gioachimiti, ha cogliere un più ampio influsso sul poema dantesco che va ben oltre la semplice citazione, e questo dato storico e letterario “sicuro ed incontestabile, e desta meraviglia che molti danteschi lo ignorino o per lo meno si mostrino ancora dubbiosi” sostiene Crocco.

È difficile, ad esempio, trovare nelle scuole Superiori, della nostra stessa Calabria, chi parli di alcune allegorie e dei riferimenti gioachimiti nella Comedia. Gli studi più recenti fanno emergere, che quel “lucemi” posto nel cuore del canto dantesco non è solo un riferimento o una indicazione legata al personaggio o alla sua collocazione spaziale nella fantasiosa visione ma un vero e proprio contributo al suo viaggio ultraterreno.

È come se il Sommo poeta avesse voluto lasciar traccia di una “profonda ispirazione”, allegorica e simbolica, offertagli dall’abate calabrese dal contatto, o meglio dalla presa visione delle Tavole del Liber figurarum che avrà potuto ammirare negli ambienti dei francescani spirituali che egli stesso frequentava. Dempf, nel suo Sacrum Imperium, andando oltre misura nei rapporti tra Dante e gli spirituali aveva definito la Comedia “una apocalisse gioachimita”.

Lo stesso Papini avanzò la tesi, anch’essa interessante, che se da una parte San Tommaso aveva acceso una fiamma per ispirare la grande Opera, sicuramente Gioacchino aveva acceso una seconda lampada per illuminarne il percorso: “se la Commedia è nel suo fondo e nella sua struttura teologica, tomista, il suo afflato profetico, espresso in misteriosa forma è gioachimita… San Tommaso gli insegnò ad edificare con ordine e saggezza il tempio tripartito del suo poema; ma nel centro di quel tempio c’è un tabernacolo coperto di emblemi misteriosi, che racchiude una fiamma accesa con faville che provengono da Gioacchino”.

Nella Comedia si coglie l’atmosfera spirituale tipica dell’epoca in cui essa maturò, dai chiari echi e reminiscenze gioachimite. Ad esempio, Dante simbolicamente colloca la Trinità Santa in una immagine allegorica che ritroviamo nelle figurae dell’abate. “Nella profonda e chiara sussistenza/ dell’alto Lume parvemi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro, come iri da iri,/ parea reflesso, e il terzo parea foco,/ che quinci e quindi ugualmente si spiri” (Paradiso XXXIII, 115-120). E così evidente l’immagine dei tre cerchi tricolori, simboleggianti la Trinità divina, che quasi non si vede più.

La fantasia creatrice dantesca è stata sicuramente influenza attraverso il simbolo che ben ne rappresenta unità, trinità, processioni e relazioni. E Dante già nel XIV canto del Paradiso (28-29) aveva detto anche della Trinità: “Quell’Uno e Due e Tre che sempre vive e regna sempre in Tre e Due e Uno”. Le suggestioni dantesco-gioachimite sono disseminate nel testo. Si ritrovano ad esempio riferimenti delle aquile ingigliate nel XIX Canto del Paradiso (1-5): “Parea dinanzi a me con l’ali aperte la bella image…parea ciascuna rubinetto, in cui raggio di sole ardesse”.

L’ideazione pittoresca e grandiosa, quanto complessa, dell’architettura ideale del Paradiso dantesco trova forti riferimenti ai criteri teologici della Tavola del Salterio decacorde ed anche evidenti analogie con il suo simbolismo, secondo gradi di perfezione spirituale che aumentano mentre si ascende verso il divino: “Il salterio gioachimita – scrive Ermini - ha offerto a Dante la migliore costruzione poetica e simbolica del suo Paradiso”. C’è poi la figura del Veltro liberatore ed innovatore della Chiesa e della società cristiana, rappresentato come il simbolico “cane” si ricollega alle allegorie dei Vaticini danteschi come era stato descritto proprio dal profeta calabrese fino a richiamare la figura di “un pontefice spirituale” che avrebbe completamente liberato la Chiesa da ogni scandalo, compreso quello del potere temporale. Nuove ricerche sono aperte dagli studiosi sula simbolica “I” con cui “s’appellava in Terra il Sommo Bene” (Paradiso XXVI, 134).

In questo versetto Dante dice, senza pronunciarlo, attraverso una sigla e con l’aiuto della poetica, il nome di Dio e che nel versetto 136 viene riportato nella formulazione linguistica ebraica “El”; sarà pure una coincidenza ma nei cerchi trinitari appare come prima sillaba della sigla IEUE, il nome di Dio, anagrammato con la lettera “I”.

La “candida rosa” ripresa nella sua simbologia anche da Umberto Eco per il famoso romanzo che ne porta il titolo, si ritrova in una delle figure con le quali Gioacchino parla della Chiesa. “In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa” (Paradiso XXXI,1-3). È aperta ancora a percorsi di studio la questione sulla figura di Beatrice che potrebbe rappresentare, per allegoria, la Chiesa, che con chiari riferimenti gioachimiti (secondo l’interpretazione del Tondelli) l’abate aveva raffigurato nella Sunamita, la biblica sposa del Cantico dei Cantici. Beatrice diventa così la nuova Chiesa spirituale sognata ed attesa dagli spirituali contemporanei dell’abate e dal movimento francescano.

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