Le Leggende dell'Alpinismo: Compagnoni, Lacedelli e le bombole di Bonatti
Il 31 luglio del 1954 due scalatori azzurri salgono per primi sul K2. Scelba alla Camera annuncia: "Il tricolore sventola a 8611 metri di altezza". Ma dietro quel primato c'era una verità che rimase nascosta per oltre mezzo secolo "perché l'impresa oltre ad avere successo doveva essere anche eroica. Far vedere che gli italiani erano stati non solo bravi, ma anche straordinari".
di Antonio Panei
Mercoledì 29 Marzo 2023
Roma - 29 mar 2023 (Prima Pagina News)
Il 31 luglio del 1954 due scalatori azzurri salgono per primi sul K2. Scelba alla Camera annuncia: "Il tricolore sventola a 8611 metri di altezza". Ma dietro quel primato c'era una verità che rimase nascosta per oltre mezzo secolo "perché l'impresa oltre ad avere successo doveva essere anche eroica. Far vedere che gli italiani erano stati non solo bravi, ma anche straordinari".
Estate 1954, Pakistan. Il geologo Ardito Desio, capo della spedizione italiana al K2, affida ad Achille Compagnoni il comando in quota e lo incarica di compiere l'attacco finale alla vetta insieme ad Ubaldo Rey. Quest'ultimo, colto dal mal di montagna ad oltre 7600 metri, si ritira e viene sostituito da Lino Lacedelli. A Walter Bonatti viene assegnato un ruolo di gregario, deve aiutare i due azzurri a centrare l'impresa e fermarsi poi 700 metri sotto la cima. Si offre come volontario per portare, a quota 7900 metri, le bombole d'ossigeno che dovranno servire a Compagnoni e Lacedelli per conquistare la seconda montagna più alta del mondo.


Bonatti, dal campo otto, parte per questa missione la mattina del 30 luglio. E' accompagnato dall'hunza pakistano Amir Mahdi. Sulle spalle hanno un peso di 19 chili. Le Dräger che devono consegnare ai loro compagni sono caricate a 220 atmosfere e hanno 12 ore di autonomia. Bonatti e Mahdi, alle 18.30, arrivano al posto prefissato, ma del campo nove non c'è traccia. Compagnoni e Lacedelli, invece di aspettarli in quel luogo, si sono spostati 250 metri più in alto e hanno montato la tenda a 8150 metri. Bonatti e Mahdi ancora non lo sanno. Decidono di non tornare indietro. Mettendo a rischio la loro vita avanzano ancora, con la schiena curva per il peso delle bombole, alla ricerca dei compagni di spedizione.


Alle 19.30 arrivano a 8100 metri. Neanche lì c'é la tenda del campo nove. Forse è dietro una parete rossastra, ma ormai è buio, troppo pericoloso avventurarsi oltre. Bonatti, non vedendoli, li chiama più volte: "Achille, Lino, dove siete?". Nessuno risponde. Urla: "Non voglio morire, non devo morire, Achille, Lino, aiutateci, maledetti!". Dopo qualche minuto, sulla sua sinistra, in lontananza, vede una lampada accendersi nei pressi di una dorsale rocciosa e sente la voce di Lacedelli: "Avete portato le bombole?". "Sì le abbiamo. Perché solo ora vi fate vivi?". "Non vorrai che stiamo fuori tutta la notte a gelare per te. Lasciate l'ossigeno lì e scendete subito". "Ma non possiamo con questo buio. Aiutateci!". La luce si spegne, nessuno più risponde.


L'Hunza si mette a gridare come un folle e tenta disperatamente di raggiungere il punto dove si era accesa la lampada, rischiando, più volte, di cadere nel vuoto. Poi si rassegna e torna indietro. Bonatti e Mahdi passano la notte a 50 gradi sotto zero, senza tenda, senza sacco a pelo e senza cibo, su un gradino gelato nel mezzo di un ripido canale nevoso, stretti l'uno accanto all'altro per cercare di attenuare il freddo atroce. Muovono continuamente mani e piedi nel timore che diventino blocchi di ghiaccio. Per riattivare la circolazione si battono la piccozza sulle braccia e sulle gambe. Raffiche di polvere gelida sul viso li fanno quasi soffocare. L'alba li trova ancora vivi.


Mahdi, che subirà l'amputazione di tutte le dita dei piedi, si avvia al rallentatore, barcollando, verso il campo otto. Bonatti non ha subito danni fisici da quel drammatico bivacco. Rimane ancora in attesa dei compagni, che non arrivano. Allora lascia l'ossigeno lì e alle 6.30 scende pure lui. Compagnoni e Lacedelli vanno a recuperare le bombole verso le 8 di mattina. Poi, al tramonto, dal campo otto Bonatti è spettatore dell'attacco finale alla vetta. Vede due puntini salire fino al cielo. Il primo è Compagnoni. L'Italia ha vinto! Sono le ore 18 del 31 luglio 1954. Per Bonatti sono attimi di gioia e di amarezza: "Ho un nodo alla gola per l'emozione. In questo momento mi impongo di ignorare tutto il resto. Ma cancellare per sempre dalla mente una simile esperienza sarebbe cosa ingiusta. Fatti come questi segnano indelebilmente l'anima di un ragazzo".


Bonatti ha 24 anni, Lacedelli 29, Compagnoni 40, Mahdi 41. Il 3 agosto il Presidente del Consiglio Mario Scelba annuncia a Montecitorio: "Il tricolore sventola a 8611 metri di altezza". Quando a settembre scende dall'aereo, a Milano, Compagnoni viene portato in trionfo dalla folla. Per anni non emerge nessun retroscena. Il contratto firmato con Desio prima della spedizione impone a tutti il silenzio fino al 1957. La versione ufficiale é questa: il K2 è stato conquistato senza l'uso dell'ossigeno supplementare. Nel 1961, nel libro "Le mie Montagne", Bonatti informa il mondo su quello che è accaduto sotto la vetta del Karakoram. Inaspettatamente parte una campagna di stampa diffamatoria nei suoi confronti. Viene accusato di aver fatto di tutto per cercare di salire per primo sul K2 e di aver usato le bombole costringendo Compagnoni e Lacedelli ad arrivare in cima senza l'uso dei respiratori.


La storia finisce in Tribunale e Bonatti vince la causa per diffamazione contro un giornalista de "La Gazzetta del Popolo". Lacedelli, prima di morire, ammette che ha ragione Bonatti. Il CAI certifica la verità del Re delle Alpi solo nel 2007. "Avevo visto la durezza della guerra. Il giorno prima con i miei amici, partigiani, giocavamo a calcio, il giorno dopo erano cadaveri. Ho visto la fucilazione dei gerarchi fascisti, ero a piazzale Loreto quando appesero Mussolini a testa in giù. Sapevo cos'era la cattiveria, ma ignoravo l'infamia. Ho aspettato che Compagnoni venisse a darmi una pacca sulla schiena, a dirmi che aveva fatto una fesseria, a chiedere scusa, perché può capitare di essere vigliacchi, ma deve anche capitare di ammetterlo. Invece niente, invece sono finito sul banco degli accusati, ero io la carogna, non loro che avevano mentito sull'uso delle bombole. E tutto questo perché? Perché l'impresa oltre ad avere successo doveva essere anche eroica. Far vedere che gli italiani erano stati non solo bravi, ma anche straordinari".

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