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Elezioni Politiche, Maurizio Santori, Diritto del Lavoro, ecco le posizioni dei partiti che il famoso giuslavorista romano ha redatto per Fortune Italia, dandoci uno spaccato dettagliatissimo di cosa intendono le varie forze politiche per “Sistema Lavoro”.

di Maurizio Santori
Giovedì 22 Settembre 2022
Roma - 22 set 2022 (Prima Pagina News)

Elezioni Politiche, Maurizio Santori, Diritto del Lavoro, ecco le posizioni dei partiti che il famoso giuslavorista romano ha redatto per Fortune Italia, dandoci uno spaccato dettagliatissimo di cosa intendono le varie forze politiche per “Sistema Lavoro”.

Sulle tematiche del lavoro i programmi politici dei partiti, desumibili sia dalla fonte statica in forma scritta che da quella dinamica in forma verbale per come emersa di recente sulla stampa, potrebbero essere ricondotti, a ben vedere, in tre grandi aree – non del tutto corrispondenti alle coalizioni elettorali in campo – che appaiono atte a rivelarne la matrice ideologica e culturale e la conseguente collocazione politica, di destra o di sinistra. Ciò, a prescindere da ogni altra considerazione, dimostra la piena attualità del tradizionale spettro di posizioni di conio settecentesco che non sembra affatto superato a dispetto del ritornello, ormai assurto a luogo comune, secondo cui tale distinzione in politica non esisterebbe più.

Lavoro, il programma del centro-sinistra

Ebbene, la prima area può rinvenirsi nei programmi dei partiti che compongono la coalizione di centro-sinistra (ad eccezione di +Europa e con inclusione del Movimento 5 Stelle) ed è identificabile, anche alla luce delle ultime dichiarazioni dei suoi esponenti di spicco, nella dichiarata necessità del superamento del Jobs Act e nella reintroduzione di un sistema di protezione fondato sulla reintegra nel posto di lavoro (quindi mediante il ripristino dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella sua forma originaria ante riforma Fornero e ante Jobs Act) da estendere, secondo le componenti più radicali della coalizione,  “a tutte e tutti” indipendentemente dalle dimensioni e dal settore dell’impresa.

Sotto altro profilo, la lotta al precariato, inteso – diversamente da altre accezioni rivenienti in altre aree politiche – come l’insieme dei contratti diversi da quelli subordinati a tempo indeterminato, viene declinata nel senso dell’avversione alla contrattazione a termine che, in tale visione, potrebbe trovare spazi residuali solo all’interno di rigide e tassative causali tipizzate, peraltro da individuare fin dall’inizio del rapporto e non, come è oggi, dopo un primo anno di “acausalità“.

Smart working lavoro manager

Il lavoro autonomo, d’altronde viene considerato in un’ottica piuttosto marginale e risulta destinatario di proposte volte, da un lato, al riconoscimento di un equo compenso in tutti i casi in cui il committente non sia persona fisica e, dall’altro, all’estensione delle tutele in caso di situazioni come la maternità, l’inattività – con applicazione di ammortizzatori sociali universali – l’invalidità o infortunio.

In sostanza, si assiste ad una infiltrazione di istituti e di misure proprie del lavoro subordinato con salti in avanti, come quello proposto dall’ala collocata più a sinistra nella coalizione, della contrattualizzazione per schemi predisposti o di un “codice di condotta” che regolamenti i rapporti tra committenti e lavoratori autonomi, con evidente alta possibilità di tracimazione nel lavoro subordinato per via giudiziale.

Vengono proposte poi: la promozione dello Smart working per favorire la conciliazione tra esigenze di vita e di lavoro, il disincentivo al ricorso del part time involontario e last but not least il Salario minimo mediante la contrattazione collettiva erga omnes per mezzo dell’applicazione di una legge sulla Rappresentanza sindacale che sia frutto dell’applicazione dell’art. 39 della Costituzione (rimasto inapplicato sin dal 1948 per evitare controlli statali sulle allora redivive organizzazioni sindacali). Il Reddito di cittadinanza viene confermato anche se con dichiarate necessarie modifiche.

Nella medesima area politica, come detto, ben potrebbe essere incluso il programma in materia di Lavoro del Movimento 5 Stelle che ha come baluardo il contrasto al precariato mediante l’avversione al lavoro a termine realizzabile attraverso l’inasprimento delle misure derivanti dal c.d. Decreto Dignità e il “rafforzamento”, in effetti non meglio identificato, del Reddito di cittadinanza.

Viene proposto il salario minimo di legge, cioè non derivante dalla contrattazione collettiva estesa erga omnes ma per diretta volontà del legislatore. Il lavoro autonomo viene in effetti maggiormente considerato mediante una estensione degli stessi diritti e le stesse tutele dei lavoratori subordinati e viene proposta una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universale.

Lavoro, il programma del centro-destra

Il programma della coalizione del centro-destra non ha un capitolo articolato dedicato al lavoro.Nel capitolo generale, in una riga si parla “di incentivi all’imprenditoria femminile e giovanile, in particolare nelle aree del Paese più depresse”. Il programma si impegna anche “al rafforzamento dei meccanismi di decontribuzione per il lavoro femminile e gli under 35”. La coalizione propone, nello stesso tempo, “l’estensione dell’utilizzo dei voucher lavoro, in particolar modo per i settori del turismo e dell’agricoltura”. In un altro capitolo (quello su Giovani, sport e sociale), la coalizione promette “supporto all’imprenditoria giovanile, incentivi alla creazione di start up tecnologiche e con una forte valenza sociale”.

Lavoro, il programma del Terzo Polo

Il così detto Terzo polo, all’interno del quale potremmo senz’altro inserire la lista +Europa  (ben inteso soltanto riguardo al programma in materia di lavoro) propone innanzitutto l’introduzione di un salario minimo attraverso una legge sulla rappresentanza delle parti sociali che abbia come finalità quella di assicurare la validità dei soli contratti collettivi firmati da organizzazioni sindacali “realmente” rappresentative; il supporto per le imprese che investono nella riqualificazione della forza lavoro mediante l’implementazione della formazione che possa colmare il gap tra le competenze richieste dal mercato e le reali competenze dei lavoratori; tentare di contrastare la precarietà promuovendo la flessibilità regolare, anche attraverso il ripristino dei voucher.

Il terzo polo propone inoltre di eliminare, dopo il primo rifiuto di un’offerta di lavoro congrua, il reddito di cittadinanza sostenendo che chi ne ha usufruito non solo non ha trovato un impiego ma neppure è riuscito a formarsi professionalmente né ha partecipato a progetti di pubblica utilità. Un’ulteriore proposta relativa a tale sussidio è l’introduzione di un limite temporale di due anni per trovare un impiego, alla scadenza del termine l’importo dell’assegno dovrebbe essere ridotto di almeno 1/3 ed il beneficiario dovrebbe essere preso in carico dai servizi sociali del Comune. Sul tema il terzo polo propone, altresì, che i percettori del reddito vengano formati professionalmente, frequentando corsi obbligatori da pianificare a livello nazionale.

Si segnala in proposito che tale tipo di formazione professionale non è rilevante soltanto per i percettori del RdC ma è un fenomeno che deve interessare le scuole e le università in un virtuoso collegamento con le imprese. Infine, il terzo polo dichiara di voler completare e modificare la riforma sull’equo compenso delle prestazioni professionali, sanando le situazioni di squilibrio nei rapporti contrattuali tra professionisti e clienti “forti”, come banche e assicurazioni.

Tante proposte, nessun ‘apparato motivazionale’

Ebbene, tutti i programmi, a prescindere dal loro diverso approccio comunicativo, contengono significative idee di riforma ispirate dal diverso orientamento politico ma nessuno presenta, purtroppo, un apparato motivazionale atto a far comprendere, per un verso, l’effettiva utilità e, per l’altro, la concreta percorribilità, in termini applicativi, delle proposte avanzate.

Ad esempio, sul versante del superamento o meno del Jobs Act non viene da nessuno minimamente considerato che il tema è stato di recente ampiamente affrontato dalla Corte Costituzionale (da ultimo con la pronuncia n. 108 del 23 luglio di quest’anno) che ha avuto modo di indirizzare il legislatore, de iure condendo, entro un solco riformatore che preveda il giusto contemperamento degli interessi di rango costituzionale in gioco (diritto al lavoro e libertà di impresa).

Secondo tale recentissima sentenza della Consulta, le norme dettate in materia di licenziamenti – derivanti sia dalla riforma Fornero sia dal Jobs Act – sono risultate, in effetti, inadeguate per una piena tutela dei lavoratori. Ciò, tuttavia, non deve indurre ad un’azione retrospettiva che porti al modello della reintegra in servizio, per dir così, universalizzata come 50 anni fa. Si intende invece necessario, nell’indicata prospettiva costituzionalmente orientata e rispettosa delle direttive emanate dall’Unione Europea in materia, un intervento del Legislatore (e quindi del nuovo Parlamento post 25 settembre) che individui nuovi criteri di quantificazione dell’indennità risarcitoria che non siano ancorati esclusivamente agli elementi dell’anzianità di servizio e/o delle dimensioni dell’azienda.

Ecco dunque che il recente dibattito tra aree politiche in materia del superamento del Jobs Act appare avvitato attorno ad un tema affievolito in quanto già istituzionalmente instradato entro gli inderogabili binari costituzionali e cioè: non un percorso restauratore del primo art. 18 St. Lav. basato sul principio, per dir così flat, della reintegra necessitata in tutti i casi di licenziamento illegittimo, né tantomeno un abolizione generalizzata della tutela reale, bensì un inasprimento delle indennità risarcitorie ragionevolmente modulato sulla base di dati oggettivi, in concorso fra loro e riferibili sia al lavoratore che all’impresa, che abbia il pregio della certezza giuridica in funzione, da un lato, di efficace deterrente per il datore di lavoro e, dall’altro, di adeguato risarcimento per il lavoratore; contemplando la reintegra in servizio solo nei casi più gravi ed eclatanti come i licenziamenti discriminatori o adottati per motivo illecito determinante o nonostante la manifesta insussistenza dell’inadempimento contestato al dipendente e posto a base del recesso.

Il salario minimo

Anche la tematica del salario minimo legale non sembra essere stata affrontata, nei vari programmi elettorali, con il necessario pragmatismo. Nel nostro Paese i contratti collettivi sottoscritti dai Sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale già prevedono un minimo salariale ben maggiore dei 9 o 10 euro lordi all’ora proposti in campagna elettorale. Per evitare zone d’ombra che esulino dall’ambito di applicazione dei CCNL in contesti produttivi di piccole dimensioni, sarebbe forse sufficiente varare una legge sulla Rappresentanza sindacale, previa applicazione del dormiente art. 39 Cost., di tal chè i contratti collettivi sottoscritti dalle Organizzazioni Sindacali maggioritarie possano dispiegare efficacia erga omnes, con conseguente azzeramento di possibili fenomeni di sindacalismo giallo.

In tal modo si eviterebbe di scavalcare e depotenziare il sindacato per effetto di un intervento legislativo in materia salariale storicamente appannaggio delle Organizzazioni Sindacali e del conflitto industriale. Tale modello è stato peraltro tracciato pochi giorni fa dal Parlamento Europeo che, approvando in via definitiva lo scorso 14 settembre la direttiva sul principio del salario minimo ha affermato che “la contrattazione collettiva a livello settoriale e interprofessionale è un elemento essenziale per determinare salari minimi adeguati e, pertanto, deve essere promossa e rafforzata sulla base delle nuove regole”.

In tal senso, i Paesi membri con meno dell’80% di lavoratori beneficiari della contrattazione collettiva dovranno stabilire – d’intesa con le parti sociali – un piano d’azione per aumentare tale percentuale. Persuade dunque la conclusione che necessiti, non tanto una legge sul salario minimo ma una legge che estenda l’efficacia della contrattazione collettiva maggiormente rappresentativa di tal ché possa, quest’ultima, affermare il salario o più salari minimi di miglior favore correlativamente alle realtà dei vari settori produttivi e delle aree territoriali di riferimento.

Nel caso in cui, in realtà produttive border line non venga applicato alcun contratto collettivo, ben potrebbe intervenire la salvaguardia di un salario minimo a 9 euro lordi l’ora di fonte legale. Ciò, tuttavia, pur sempre nella consapevolezza che già oggi, in tali casi di vuoto contrattuale, il nostro Ordinamento, segnatamente per effetto dell’art. 36 Cost., consente al lavoratore di adire la magistratura del Lavoro per ottenere una retribuzione proporzionata e sufficiente che, per giurisprudenza consolidata viene stabilita alla stregua dei livelli retributivi previsti dai contratti collettivi di settore stipulati dalle OO.SS. maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

In merito al reddito di cittadinanza, dai programmi politici non è dato comprendere come possa essere operativamente modificato al fine di renderlo, non solo compatibile con i vincoli di bilancio, ma anche e soprattutto uno strumento transitorio per la lotta alla povertà e per la protezione sociale degli esclusi (incolpevolmente) dal mercato del lavoro con parallela funzione di rilancio occupazionale, anziché una semplice e permanente forma assistenziale di beneficienza pubblica fine a sé stessa.

La scommessa dovrebbe essere quella di coniugare l’assistenza/sicurezza sociale, propria di un istituto a semplice genesi istantanea, nei quali il determinarsi dell’evento generatore di bisogno comporta l’erogazione della tutela, con i diritti sociali (prima di tutti il diritto al lavoro) a cui vanno ascritti quegli istituti riferibili ad una situazione giuridica attiva del cittadino. Dunque, andrebbe perseguita l’affermazione dei diritti sociali come diritti di cittadinanza integrati e coordinati con l’assistenza sociale.

Sostanzialmente, occorrerebbe rimeditare il Reddito di cittadinanza nel senso di una misura di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale attraverso, sì, il sostegno economico delle persone esposte al rischio di marginalità sociale ma con un connesso schema volto a generare volani occupazionali. Ciò potrebbe avvenire attraverso la creazione di un “esercito del lavoro”, riprendendo la definizione e il modello di Ernesto Rossi illustrato nel suo saggio del 1946 dal titolo evocativo “Abolire la miseria” (ripubblicato da Laterza a cura di Paolo Sylos Labini). Come ricordato nell’interessante articolo di Franco Corleone su l’Espresso del 4 settembre 2022, quella del co-autore del Manifesto di Ventotene, era “una proposta fondata su un’etica del lavoro e su un modello non assistenzialistico densa di carica ideale e utopica che può tornare ad essere una suggestione concreta”.

Un’opzione applicativa concreta potrebbe essere quella di trasformare i navigator (che invece di navigare sono naufragati) in agenzie private di collocamento che interagiscano con il collocamento pubblico in una sorta di outplacement permanente effettivo (comprensivo di percorsi formativi impartiti da scuole di alta specializzazione) che tenga conto delle aspirazioni dei candidati e dei fabbisogni delle imprese onde poter superare il c.d. skills mismatch (cioè il gap tra forza lavoro qualificata e i lavori richiesti) che indubbiamente rappresenta un imprevisto ma ormai strutturale problema del nostro mercato del lavoro.

Sul tema del precariato e dei contratti a termine, una sola breve considerazione: se durante la pandemia, in sede emergenziale, al fine di impedire un ulteriore decremento occupazionale, è stata derogata l’obbligatorietà delle causali legittimanti, è giocoforza ritenere che tale visione restrittiva voluta dal c.d. Decreto dignità non si sia affatto rivelata utile a combattere il precariato e ad incrementare i contratti a tempi indeterminato avendo, al contrario, cagionato il mancato rinnovo di una moltitudine di contratti a tempo determinato, favorendo involontariamente altre tipologie di lavoro, queste sì precarie e  sovente oltre il confine della legittimità, come il falso lavoro autonomo, l’interposizione fittizia di manodopera, le false associazioni in partecipazione e, su tutte, il lavoro nero.

Probabilmente occorrerebbe fare la scelta opposta, cioè quella di liberare i contratti a termine dalle attuali causali (tanto stringenti quanto labirintiche) per i primi due anni di rapporto e dal terzo anno (calcolabile ricomprendendo sia proroghe che rinnovi) tornare alla causale generale (e quindi più libera) delle esigenze tecniche produttive e organizzative da specificare puntualmente in contratto. Con un tetto massimo di durata a 5 anni, com’è oggi previsto solo per i dirigenti. In tal modo molti giovani (ma non solo) potranno entrare nel mercato del lavoro, consolidare il loro curriculum e il loro know how con ogni conseguenza positiva sul piano delle loro future opportunità.

È comunque evidente che, di pari passo, sia necessario, oltre alla riduzione del cuneo fiscale per tutti i rapporti di lavoro, giungere ad una decontribuzione del lavoro giovanile under 35 in caso di nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato.

Sullo stesso abbrivio argomentativo sembra potersi collocare lo smart working. La legislazione dell’emergenza lo ha semplificato e di fatto liberalizzato, in alcuni casi lo ha reso un diritto soggettivo del lavoratore. E’ di pochi giorni fa la notizia che, in sede di conversione del decreto Aiuti-bis, il lavoro agile sia stato confermato come diritto (e non come facoltà da esercitare previo accordo con il datore di lavoro) per i lavoratori fragili e i genitori di figli fino a 14 anni e sono state confermate le procedure semplificate di comunicazione.

Ne consegue che lo smart working vada senz’altro agevolato in quanto rivelatosi fruttuoso ed anche, a detta di molti direttori del personale, più produttivo, pur sempre – per la generalità dei casi diversi da quelli contemplati dalla recente proroga – previo accordo tra impresa e dipendenti entro un modello misto che armonizzi il tempo di lavoro con la vita privata dei cittadini lavoratori, limitando al contempo i consumi di energia e la congestione della mobilità nelle grandi città e le conseguenti emissioni di Co2.

Non però un grezzo domestic work, come quello necessariamente attivato nel primo periodo pandemico, ma un rilancio del lavoro agile, per obiettivi e alternato al lavoro in presenza.

Nessun programma politico pone l’accento sulla necessità di tornare allo spirito della legge n. 81 del 2017 e, soprattutto, di affrontare lo smartworking da un punto di vista culturale, mediante lo sviluppo dell’EduTech e l’istituzione di corsi di formazione per dirigenti e quadri direttivi finalizzati ad un adeguamento di mentalità e di leadership confacente alle caratteristiche modali e contenutistiche del lavoro agile.

Conclusivamente, qualche sforzo pragmatico in più in una materia che connota il nostro ordinamento repubblicano al primo articolo della Costituzione, probabilmente andava fatto e forse avrebbe dovuto essere ispirato al rilancio dell’etica e persino della felicità del lavoro, onde interrompere il crescente fenomeno delle dimissioni senza chiare giustificazioni che si sta verificando, oltre che negli Stati Uniti, anche in Europa, verosimilmente a causa della scoperta del lavoro a distanza generato dal Covid e, soprattutto, dalle forme di sussidio pubblico vigenti.

Il fenomeno della “great resignation” va arginato proprio con lo sviluppo di un welfare, per dir così, soggettivo, attraverso la ripresa di spazi di socializzazione sul luogo di lavoro e con una generale flessibilità, interna al rapporto, sempre più personalizzata ma anche attenta ad evitare disuguaglianze tra lavoratori del Terziario e quelli del Settore Manufatturiero o dei Servizi dove, stante l’impossibilità della delocalizzazione e smaterializzazione del lavoro, l’Industria 4.0 potrebbe rappresentare la soluzione corrispondente in termini di sicurezza e flessibilità.

In definitiva, dunque, in questa campagna elettorale si sarebbero dovute tenere in maggiore considerazione le nuove esigenze di flessibilizzazione modale e digitale del lavoro, tali da conferire, ai lavoratori, una migliore qualità della vita con conseguenti maggiori performance e soddisfazioni personali e, al datore di lavoro, un incremento di produttività con contenimento dei costi economici. In sostanza, un virtuoso e giusto contemperamento tra sfera lavorativa e sfera privata che consenta un miglior tempo effettivo per il lavoro e un maggior tempo affettivo per la famiglia e le relazioni personali.

*Maurizio Santori, Avvocato giuslavorista – Studio Pessi e Associati


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