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LIBRI PER L’ESTATE/ Il cyberbullo? Un modo inquietante per essere “famoso”…

Il critico culturale del New York Times Lee Siegel: “Internet ha creato la grande illusione che il mondo fisico e sociale di interazione fra menti e cuori non esistesse più”.

di Carmine Castoro
Mercoledì 20 Luglio 2022
Roma - 20 lug 2022 (Prima Pagina News)

Il critico culturale del New York Times Lee Siegel: “Internet ha creato la grande illusione che il mondo fisico e sociale di interazione fra menti e cuori non esistesse più”.

Cos’è l’universo mediatico oggi se non il soffice talamo su cui si addormenta, serafica e turchina, la Fata Popolarità? E cosa indossa quest’ultima se non un bel mantello i cui brillanti sono: la captazione costante dell’attenzione degli altri, lo sbriciolamento dei saperi storici e critici, la santificazione di alcuni conduttori televisivi e di piccole star venute fuori dal nulla “creativo” della Rete, una fitta nebulosa del bene e del male, dell’utile e dell’inutile, del democratico e del totalitario?

Autoespressione e collasso della competenza. Intorno a questi due concetti, non a caso, il saggista americano Lee Siegel fa ruotare il suo Homo Interneticus (Piano B edizioni), testo di grande tensione morale e di incisiva veridicità sulle dinamiche più complesse, fluttuanti, post-umane della contemporaneità. Sull’onda del grande Wittgenstein, il critico culturale del New York Times scrive: “Internet ha creato la grande illusione che il mondo fisico e sociale di interazione fra menti e cuori non esistesse più.


In questa nuova dimensione, il monitor è tutto ciò che accade, insieme all’illusione proiettata dallo schermo di un mondo addomesticato, assimilato, abbreviato e ordinato in trilioni di unità connesse tra loro, chiamate siti”. Crollano i cosiddetti valori aggreganti, politici, comunitari, l’inclusione significa solo manifestazione e mercificazione del sé, l’area commerciale si estende come mucillagine su tutti i settori della vita, apparire è una legge feroce che dimentica ogni alterità e colma ogni abisso dell’interiorità: “E ciò che conduce alla popolarità è il continuo successo nel fondersi con la massa, nell’espansione delle sue attrattive più generiche e banali. Si deve riuscire ad assomigliare il più possibile a tutti gli altri, più di quanto gli altri riescano a fare. Le esagerazioni, le intensificazioni, l’esaltazione dei successi già ottenuti, diventano il mezzo più efficace per raggiungere la fama”. Siamo nel regno della blogosfera, del valzer dei picchi e delle simmetrie, nel culto del proprio ego un tanto al chilo.

Ma siamo anche in uno stagno della simulazione che infetta il giornalismo (quanti video tarocchi per finalità ideologiche o cash commerciali?); la verità, la diffusione della conoscenza, la crescita etica di una nazione, inseguono (e si adeguano a) una infinita platea di utenti-agenti  - che ha sostituito la storica idea di “popolo” e di “opinione pubblica” - che non vedono l’ora di mettersi alle spalle l’asprezza della realtà per tuffarsi nelle onde chiare e fresche degli acquari elettronici.

Il trenino che fanno gli aspiranti competitor ad Avanti un altro! di Bonolis non ne è l’effige più divertente e sinistra? Non si porta più pazienza in fila per farsi servire un filetto dal macellaio o per mettersi sul lettino dell’ambulatorio di un medico, ma per staccare il biglietto della buona sorte, per diventare famosi e supercliccati sui social, e basta poco: una risposta giusta a un quiz, una lotteria in diretta, una risata che ci fa sbellicare, una bizzarria fumettistica, un tic che incuriosisce, e da morti di fama si passa a capotavola del grande banchetto della riconoscibilità. Una volta smarrite le coordinate di un senso politico, di una memoria collettiva, di un progetto universale dell’umano, siamo entrati nella fase del minimum power, riflesso di un sistema mediatico sempre irritato, sempre stressato, sempre bisognoso di nuovo carburante nella caldaia degli ascolti e dei profitti. La pretesa di visibilità va a braccetto con la piccola retorica del “talento” a cottimo, che vive solo l’emivita di un applauso, senza più nessun elitismo. “L’anonimato, si potrebbe dire, è l’ultima identità di Internet. Se non sei chi sei, puoi essere chi vuoi”, è la conclusione paradossale ma vibrante di riscossa di Siegel, poiché nello strato più basso delle miniere di like e di follower dove si cerca ogni giorno la propria geologica collocazione, non si trovano individualità ben qualificate e corredate, ma solo mutanti che perseguono, surfando sui propri labirinti mentali, un trionfo a sei zeri e il carnevale del proprio essere.

La realtà strangolata nel suo circuito chiuso, quindi, sfibrata dalla radiazione fototelevisiva e youtuberistica – potremmo dire col lessico multimediale di oggi - che la cristallizza lì dov’è, è il vero fondamentalismo da affrontare.

Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è. Non ci si può attardare sulle difficoltà di apprendimento del singolo, sull’amarezza delle sue sconfitte, men che meno sulle sue fragilità emotive, sulla sua biografia spezzata, sui suoi disturbi psichici, sulle sue problematiche di crescita e inserimento sociale.

Ecco che allora, finanche un profilo criminale fai-da-te come quello dei bulli e dei cyberbulli in una classe, una palestra, una comitiva, un gruppo di amici può legittimamente ambire allo stesso grido di “superiorità” cui ambisce l’aspirante cantante, attore, vedette, marionetta del web che dir si voglia. Roberta Bruzzone, la famosa tele-criminologa e l’avvocato docente Emanuele Florindi in questo loro Nella tela del ragno (DeAgostini) ci spiegano proprio come iniziano tante carriere devianti utilizzando le comode amplificazioni del mondo online, là dove gli offender del terzo millennio si sono moltiplicati, nascosti, resi famelici, distruttivi e spesso irreperibili grazie ai tentacoli tecnologici che sfumano la loro identità e le loro responsabilità appoggiandosi proprio alle connessioni istantanee, alla perdita del senso del limite, della misura, della cognizione delle conseguenze delle proprie azioni da parte di chi pensa di usare “solo” un telefonino, una chat, un reinvio automatico di un video “scherzoso”.


Ma così non è: le reputazioni vengono infangate, le vite spezzate da un sentito dire generale che all’improvviso accusa, punta il dito, rabbuia, stigmatizza, ci si ammala da un punto di vista alimentare, familiare, relazionale, neurologico, quando magari qualcuno diffonde nostri dati personali, immagini intime, squarci segreti di un’ex vita di coppia, e in tutto questo il “capo” della trama ottiene il suo Olimpo. Dicono gli autori: “Il contesto umano è fondamentale per il bullo, e per questo ogni intervento di prevenzione o riparazione deve essere calato nel contesto in cui vivono vittime e persecutori, così da stabilire rapporti sani nella comunità e modificare la mentalità corrente di una società che considera vincenti le persone egoiste, arroganti e prepotenti, e lecite le forme di sopraffazione del più debole”.

Più facile a dirsi che a farsi, visto che, come notano i due scrittori, ciò che quasi arcaicamente consideriamo parte della natura umana – menzogne, molestie, violenze, ingiurie, diffamazioni, odio – ha senz’altro avuto una ipertrofia - nel senso della permanenza e della propagazione di atti, espressioni, minacce e disegni delinquenziali che lasciano impronte pesantissime e sanguinosissime - proprio a causa dell’uso immoderato e scellerato che si fa oggi di cellulari, profili social, fotografie, performance animate costruite in ogni momento della giornata.

Con questa messa in gioco continua della nostra privacy, della nostra razionalità, di ogni ipotesi di bene collettivo, ci stiamo allontanando sempre di più da quelle specificità antropologiche che in secoli passati ci hanno fatto essere artisti, poeti, inventori, sognatori, e oggi sempre più carrucole e chip, stupidamente meccanici, di una Macchina globale che ci fa divorare l’un l’altro.


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Homo interneticos
nella tela del ragno
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