Bookdown..."Il Virus della lettura..." a cura di CARMINE CASTORO

Lucidità, eros, gentilezza

per vincere il tecno-capitalismo.

(Prima Pagina News)
Mercoledì 07 Luglio 2021
Roma - 07 lug 2021 (Prima Pagina News)

Lucidità, eros, gentilezza

per vincere il tecno-capitalismo.

Il Covid è stato l’effige disgraziata di una subcultura del saccheggio del vivente, di un antropomorfismo smodato, il sintomo di un esaurimento diffuso di risorse e beni comuni la cui eziopatogenesi fa tutt’uno con le più retrive e immarcescibili configurazioni del potere oggi.

Sullo sfondo di variazioni climatiche, imperitura carbonizzazione, latitanza di energie alternative, abbiamo abitudini nutrizioniste di un certo tipo, disboscamenti selvaggi, obsolescenze programmate, l’economico che intrude l’ecologico, lo stravolgimento dell’uso del suolo, la biodiversità considerata come un fondo inesauribile da espropriare, spill over letali, con conseguenze a livello infettivologico che non sono più inimmaginabili o periferiche, come abbiamo visto; dunque uno scenario mondiale di non-sostenibilità, di incuria, e di scarsa porosità a tutto quanto sia realmente comunitario, cooperante, co-generato, co-gestito, co-vi(d)sibile.

Ci fanno un poderoso riassunto delle mistificazioni, della dismisura e della tracotanza autoreferenziale del Sistema globalizzato in cui viviamo - razionalista, industrializzato e mercificato fino a essere fradicio di logiche disumane -, il sociologo Lelio Demichelis e il filosofo Paolo Bartolini in questo loro teso e travolgente La vita lucida (Jaca Book).


Il primo, con un linguaggio trigonometrico, assiomatico, flagellante, che ripete ossessivamente alcuni lemmi che sanno di disperata refrattarietà alle logiche della reificazione e dell’addomesticamento di massa in cui siamo immersi, oltre che di perfetto incrocio fra approccio sincronico e diacronico della materia trattata; il secondo, con toni più speziati e sfumati, attinge alle esperienze della psicanalisi esistenziale e situazionale, sperimentando un livello intensamente liminale, con tratti di raro pregio stilistico e lessicale, in una dimensione che potremmo definire (finalmente) poetico-eversiva, soprattutto quando, per spiegare la forma cava e vuota delle identità oggi, dice con chirurgico splendore: “Più i pazienti si sentono alle strette, più si rivela il fatto che la modernità ha sdoganato un presunto soggetto sovrano che si autodetermina, individuo utilitarista e autocentrato, solo per farlo soffocare all’interno del perimetro delle sue nevosi. Quando manca il mondo come orizzonte, tale da costringerci a gettare uno sguardo oltre il recinto dell’io, quando il desiderio non è più incline ad abbracciare un paesaggio e si accontenta di oggetti (o di situazioni ristrette e semplificate), il disagio dilaga e il nonsenso la fa da padrone”.

Peccato che taluni concetti particolarmente blindati in Demichelis abbiano una deriva essenzialista e quasi determinista, in mancanza di migliori approfondimenti delle stratificazioni di potere più multipolari, digressive, invisibili e discrete che abbiamo avuto/subìto negli ultimi decenni. E che ci si ritrovi (a pag. 130) a scoprire che il Sessantotto “ha prodotto” con la sua “rivolta delle pulsioni di vita” lo tsunami calcolatorio-plusvalente del capitalismo occidentale.

Come a dire, a livello di immaginario collettivo e pratiche sociali, per fare solo un esempio, che l’attenzione all’espansionismo militare degli Usa, l’anti-manicomialismo, l’allarme su come viene condotta l’informazione in tv e la guerra aperta ai vecchi sacerdozi tradizionalisti e ortodossi, tipica di quegli anni ‘60-70, avrebbero causato, naturaliter e non si capisce in base a quale necessità interna, la televisione-trash, l’incultura dilagante, le violenze nelle carceri, la propaganda, l’esportazione delle democrazie, la pornografia on line e quant’altro di alienato ci ottunde e massacra oggigiorno – una semplificazione che rischia di diventare una cantonata teorica. E scopriamo pure che aver rivendicato un ritorno alla convivialità, alla prossimità, a un minimo di socialità senza guardianìe, a un allargamento di feroci e anti-costituzionali – seppur dettate dall’emergenza Covid – restrizioni di libertà, significhi (a pag. 26) esser ricorsi a una pratica collettiva “necrofila/tanatofila dove i regali e l’aperitivo valgono più della propria vita (e degli altri)”.

Come a dire, che un giusto e sano anelito alla vita urbana e pubblica – Spritz o non Spritz, a seconda dei gusti di beverage – debba significare portarsi dentro lo stigma, la blasfemia di essere tutti figli idioti della stessa mandria che predica crapule e libidine sfrenata innescate dal Capitale per fini consumistici e ludopatici, senza, anche qui, provare a vedere come quel “potere” su cui gli strali dell’autore si conficcano giustamente e senza pietà abbiano degradato la vita dei singoli gestendola con asfissia in nome di un ultra-igienismo e di una iper-prevenzione (Agamben ha parlato non più di diritto ma di “dovere” alla salute) vieppiù surreali e sacrificali in moltissimi periodi della pandemia e con numerosissime opacità/inadempienze/forme corruttive al vaglio di giudici e procure.

Questi profondi buchi neri nel tentativo di edificare nuovi ecosistemi che rispettino la biodiversità, il desiderio autentico, la riconquista del tempo e la “gentilezza” nelle relazioni di cura verso di sé, i simili, la natura, non invalidano l’opera. Anzi.

Siamo svegliati duramente da quello che Jerome Baschet chiama “Capitalocene”, e Demichelis con leggera variante “Tecnocene”, (personalmente in un mio passato saggio, senza troppo citarmi, “Tele-Capitalismo”), cioè l’Antropocene del Capitale che è quella forma storica, occorre dirlo, di depredazione dell’esistente e deprecazione dell’essente, intendendo quest’ultimo, senza alcun pregiudizio metafisico, come la cifra estetica di quella dimensione “exosomatica” – alla Stiegler -, che cioè ci spinge fuori dalla nostra corporeità singola, e che pertanto implica il raccordo fra tecnologia, territorio e politica. Se quest’ultimo non è più una forma partecipata e contributiva del co-esistere, ma una mistura e una mostruosità, lo si deve solo al moto perpetuo del denaro e dell’industrialismo, e alle pratiche tetragone di insediamento delle soggettività nel senso dell’illimite e della non-illibatezza, del senza-rimessa, del senza-rimorso. 

Che è quello che il grande filosofo francese Edgar Morin nell’ultimo Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus (Raffaello Cortina) chiama “l’economia del frivolo e dell’illusorio” e “interdipendenza senza solidarietà”: due terribili necrosi del vivere civile, dello stare insieme, che infangano e saccheggiano, di neo-autoritarismo e di crescita scomposta che oblia i bisogni essenziali, quella “comunità di destino” nel cui grembo dovremmo frettolosamente ritrovarci per riaccendere un umanesimo davvero universale e non astratto, per batterci in nome di un “new deal ecologico-economico”, per sconfiggere quel pensiero “disgiuntivo e riduttivo” che – dice Morin, lui sì per fortuna – ha portato durante l’epidemia a “decisioni aberranti, a ingiunzioni contraddittorie”, facendo di una vendutissima insecuritas collettiva e di affossamenti democratici super-veloci il cimitero delle nostre coscienze.

L’uguaglianza di fronte alla morte come nuda vita, come gracilità e finitezza dell’essere umano, deve portare a un’auto-abolizione del Potere in quanto oscena calotta della vita spogliata, deficitaria, offesa, svilita, stordita e dunque a un trasalimento infinito di giustizia, sicurezza e bisogni reali.

A un nuovo “populismo di sinistra” (per citare la politologa Chantal Mouffe), che porti a compimento la disassuefazione dalle logiche di sfruttamento e tecno-cattività del neoliberismo più acuminato nelle forme di un nuovo contratto sociale, non sedotto, non sedato, senza Leviatani che occhieggiano nelle brume della Storia.

Un vero comunismo, come cosa e casa comune che, oltre agli imprevisti biologici  - continueremo a chiamarli così ancora per quanto? – si disincagli da quelle miasmatiche limacciose alghe che sono le discriminazioni, le dominazioni, i tecnicismi immunitari ed emergenziali del potere, le sproporzioni economiche, le disuguaglianze, le xenofobie revenant, lo spregio verso l’auto-aiuto collettivo, tutte stanze tegole e corridoi dello stesso edificio fatiscente.

Dobbiamo benedire un ritorno alla riappropriazione del Bios, a livello materiale con le condizioni fisiche, e immateriale con la parola, la formazione, le finalità, i sensi pubblici: un nuovo patto di concertazione, una nuova sinfonia fra attori sociali che quasi musicano e danzano la loro esistenza attraverso gli istituti di un rigenerato spirito comunitario. Morin propone la potenza di Eros, un “vivere secondo il bisogno poetico d’amore, di comunione e di incanto estetico”.

Miguel Benasayag nella sua bella postfazione ai due autori parla di “elogio del flou” come campo delle possibilità non codificate. Bartolini di un re-incantamento e una ri-sacralizzazione del Mondo. Ne propongo la M maiuscola in nome di una condizione umana tragica e gioiosa, dove il fare è sfida e non adattamento, dove il filo che ci unisce è delicato ricamo e non spinato, e dove limite e libertà si riverberano in un unico respiro ossigenante.

 


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