Canneswood: il Festival che si è venduto l’anima

Tra blockbuster americani, tappeti rossi sponsorizzati e registi invisibili, Cannes non è più la patria del cinema d’autore. È solo l’ennesimo red carpet per Hollywood.

di Carlo Di Stanislao
Martedì 13 Maggio 2025
Roma - 13 mag 2025 (Prima Pagina News)

Tra blockbuster americani, tappeti rossi sponsorizzati e registi invisibili, Cannes non è più la patria del cinema d’autore. È solo l’ennesimo red carpet per Hollywood.

Cannes non è più Cannes. È Beverly Hills con un accento francese.

 

Il Festival che un tempo incoronava gli autori, accendeva le polemiche e sfidava i poteri forti del cinema oggi somiglia sempre più a un showroom luccicante dove tutto è in vendita: immagini, dichiarazioni, emozioni. Il cinema come linguaggio è stato sostituito dal cinema come posa.

 

La selezione ufficiale 2025 sembra il programma di un multisala di Los Angeles: sequel miliardari, attori col contratto Marvel, e registi indie ridotti a contorno per le foto promozionali. Lo spirito di Truffaut e Godard si sarà preso un Ryanair per Locarno, o si è ritirato in silenzio da qualche parte, lontano dai selfie e dai branded cocktail.

 

I film che un tempo dividevano la platea, oggi sono rimpiazzati da titoli unanimemente inoffensivi, progettati per piacere, non per rischiare. Le sale un tempo vibranti di tensione e dissenso oggi sono piatte: si applaude per protocollo, si fischia solo se lo decide Twitter. La critica è diventata content, e i registi si sono trasformati in testimonial.

Ma è la cerimonia d’apertura che ha svelato il volto più contraddittorio di questa nuova Cannes.


Juliette Binoche, con voce rotta e occhi lucidi, ha pronunciato un discorso forte, doveroso, sacrosanto, denunciando la condanna per stupro inflitta a Gérard Depardieu. Parole importanti, che però sembravano recitate in un teatro già programmato per assorbirle, neutralizzarle, incorniciarle. L’indignazione era corretta, ma l’ambiente era sbagliato.

Una standing ovation studiata, una commozione calibrata, un applauso perfettamente sincronizzato con le telecamere. Nessuno in sala sembrava realmente disturbato, nessuno sembrava voler mettere davvero in discussione un sistema che, in fondo, continua a premiare i potenti e a proteggere i volti celebri. La stessa macchina che ha permesso a Depardieu di essere celebrato per anni è quella che oggi applaude la sua condanna con aria contrita, senza mai guardarsi allo specchio.

 

Cannes mimava la coscienza. La metteva in scena con la stessa cura con cui si organizza un red carpet.


Ed è proprio questa la tragedia: non la mancanza di coraggio, ma la trasformazione del coraggio in performance. L’arte che un tempo denunciava è diventata una liturgia del consenso. Il dissenso è previsto, regolato, approvato.

 

Intanto, nei panel sponsorizzati, si parla di “storytelling inclusivo”, ma intanto si proiettano le solite storie. Si citano Pasolini e Varda, ma si programmano film pensati per vendere merchandising. Il cinema europeo, quello vero, resiste ai margini, nei corridoi, nei bar degli accreditati, nei mormorii di chi non viene più invitato ai party di Netflix.

 

Il paradosso è chiaro: Cannes, nato per difendere il cinema europeo dal dominio culturale americano, è diventato il salotto buono della stessa Hollywood che doveva contrastare. E non perché costretta: lo ha scelto. Ha aperto le porte, steso i tappeti, firmato gli accordi.

Forse è tempo di accettare una verità: Cannes non detta più la direzione del cinema. La segue, la rincorre, la copia.


Hollywood non ha conquistato Cannes. È Cannes che ha chiesto il visto per trasferirsi a Hollywood. E lo ha ottenuto senza nemmeno bisogno di fare un provino.

 

L’identità non si perde tutta d’un colpo. Si smussa, si addomestica, si vende un’inquadratura alla volta. Cannes ha venduto la sua. In cambio ha ottenuto follower,


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