Antimafia vana e Antimafia combattente

Lenzuola bianche appese come bandiere al balcone e alle finestre come simbolo di resistenza e ribellione contro la mafia.

di Mimmo Nunnari
Mercoledì 13 Luglio 2022
Roma - 13 lug 2022 (Prima Pagina News)

Lenzuola bianche appese come bandiere al balcone e alle finestre come simbolo di resistenza e ribellione contro la mafia.

Accadde trent’anni fa a Palermo dopo la strage di Capaci nella quale la mafia uccise Giovanni Falcone insieme alla moglie e ai poliziotti della scorta. Fu una giovane donna che per prima stese sul balcone un lenzuolo sul quale c’era scritto: “Palermo chiede giustizia”. Fu un segnale importante, inusuale in Sicilia, spontaneo, che veniva dal basso, contro la mafia. Tantissime altre persone si sarebbero in seguito unite alla protesta, esponendo alle finestre lenzuola, semplicemente bianche, o disegnate con slogan e invettive contro la mafia. Nacque anche un “Comitato dei lenzuoli” formato da gente comune che non ebbe bisogno di sponsorizzazioni, patrocini, o contributi delle istituzioni, per dire basta ai soprusi e alle violenze mafiose.

Quella dei lenzuoli bianchi resta, simbolicamente, la più forte testimonianza della società civile in Italia contro la mafia. Fu un basta chiaro, forte, fatto di tre parole che dicevano tutto: “Palermo chiede giustizia”. Parole gridate, senza paura, efficaci, non di facciata: parole di antimafia “combattente”. Quell’episodio di Palermo ci è venuto in mente guardando la manifestazione popolare di Milano in difesa del procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, minacciato di morte dalla mafia.  Anche quella mobilitazione di Milano, che sarà ripetuta in altre città, la ricorderemo per le tante voci salite dalla società civile, che si sono mescolate: mondo del lavoro, giovanile, del volontariato, cattolico, della Chiesa: “Sono contento che la manifestazione si faccia a Milano, perché il fenomeno riguarda tutto il Paese” ha detto il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei (in alto nella foto).

Non sempre le iniziative antimafia che si sono svolte negli ultimi decenni hanno avuto un significato così coinvolgente, autentico, genuino, come è accaduto trent’anni fa a Palermo e l’altro giorno a Milano. Ma, a dirlo, a fare le differenze, tra antimafia “ufficiale” e antimafia “istintiva” si corre il rischio di essere fraintesi. Perché quando si parla di antimafia si entra in un campo scivoloso, delicato: antimafia è un termine da maneggiare con cura, con prudenza, con misura, prima di tutto per evitare di cadere nella polemica tra antimafia retorica e antimafia effettuale. La prima racconta la pericolosità, l’eternità della mafia, il brand appartenente (a loro insaputa e per decisione degli altri) a determinati territori, ma è, questa, una narrazione che purtroppo ha contribuito non poco con film, televisione, giornali, libri, a trasformare la questione meridionale in questione criminale, finendo così col marchiare di mafiosità solo determinate regioni ( mentre la mafia come si sa ormai è überall) senza mai chiedersi perché c’è la mafia, perché esiste da almeno cent’anni.

La seconda, con meno clamori, muove invece dalla convinzione che la mafia si deve combattere, perché si può vincere. Lo ripeteva Giovanni Falcone che la mafia è un fenomeno storico e che come tutte le vicende umane ha avuto un inizio e avrà una fine. Per vincerla, però, la “malapianta”, bisogna anche capire quali sono le cause per cui finora non è stata vinta e studiare le azioni strategiche e operative da calare sul terreno, per poterla battere.

Un’antimafia meno retorica e meno di facciata di quella dominante dovrebbe provare a incidere su alcuni nodi di fondo della storia italiana: assenza storica dello Stato in determinati territori, disuguaglianze insopportabili, pregiudizi idioti, offerta debole nell’istruzione e nella formazione, clientelismo, corruzione, mancanza di investimenti, di occupazione, di crescita ed estendere le analisi sui nessi tra legalità e modelli di sviluppo e sulle connessioni tra sistema politico e sistema mafioso. Fare riflessioni di questo tipo significherebbe rompere il circolo vizioso secondo il quale, volta a volta, si pensa che sia necessario prima vincere la mafia e poi promuovere lo sviluppo o al contrario che occorre prima realizzare concreti obiettivi di sviluppo e poi ingaggiare la definitiva battaglia contro la criminalità organizzata.

I due termini della questione: vincere e promuovere sviluppo, si reggono invece soltanto se sono tra loro uniti e complementari, se affrontano, su un piano parallelo e contestuale, i nodi da sciogliere. Sappiamo bene quanta umiliazione e indignazione generano frasi come: “Al Sud non vale la pena di fare niente perché c’è la mafia”.

Si tratta di alibi per non fare niente davvero o di idiozie di intellettuali ottusi. Non facciamo nomi per carità ma ricordiamo bene un noto personaggio ambientalista e televisivo che per liquidare la questione ponte sì ponte no sullo Stretto di Messina disse: “Tanto non si tratta di unire due coste ma due cosche”.  La domanda, in questo nostro ragionamento, è: serve un’antimafia faziosa che evita di porsi questi problemi?

  O è piuttosto un’antimafia di facciata, che organizzata festival, eventi, commemorazioni, ma poi non fa nessuna azione concreta sul campo? Ci viene da rispondere che serve a poco questo tipo di antimafia, come serve a poco l’azione (debole) dello Stato quando in mancanza di strategie precise ripiega sullo scioglimento dei consigli comunali e, in qualche caso, su iniziative retoriche (con intento educativo alla legalità) buone per i media, come l’istituzione di registri antimafia.

E’ accaduto a Reggio Calabria tempo fa dove i cittadini sono stati invitati a recarsi in Prefettura per firmare un registro “antimafia” pomposamente chiamato “registro di cittadinanza consapevole” a testimonianza del “rifiuto di ogni logica e interesse ‘ndranghetistico”. Insomma più o meno una firma per prendersi la patente antimafia. Hanno firmato, oltre al Prefetto, padrone di casa, l’arcivescovo dell’epoca, la presidente della Commissione Antimafia dell’epoca Rosy Bindi, altri rappresentanti delle istituzioni, oltre cittadini vogliosi di un selfie, davanti allo scalone liberty del Palazzo del Governo.

E’ stato il massimo della retorica antimafia, patrocinata dallo Stato, che dovrebbe fare altro, e non abbandonare al loro destino nelle isole infelici giudici, poliziotti e carabinieri.

A dirle, queste cose, ieri come oggi, si rischia di urtare la suscettibilità di quanti credono che spetti solo a determinati circoli in politica, nel mondo culturale, mediatico, editoriale, detenere l’esclusiva della lotta alla mafia. Ricordiamo cosa accadde a Leonardo Sciascia quando sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 scrisse l’articolo “I professionisti dell’antimafia” con cui accusava giudici e politici di usare l’antimafia come strumento di potere. Gli diedero del mafioso, eppure lui, il maestro di Regalbuto, era lo scrittore che con i suoi libri aveva fatto capire che cos’era la mafia, ancor prima che arrivasse l’ondata di libri che diventò filone letterario redditizio: un genere appetibile per il mercato editoriale. Libri di successo, che però mai hanno superato o eguagliato, per il loro contenuto, almeno per quanto riguarda la Sicilia, l’analisi del sociologo tedesco Henner Hess, che col suo “Mafia” (prefazione di Leonardo Sciascia, editore Laterza, 1973) ha spiegato i caratteri di una specifica subcultura mafiosa sottraendola a tutte le precedenti definizioni fantasiose, o parziali. O, per soffermarci sulla Calabria, non è stato scritto niente di meglio di quanto sulla ‘ndrangheta avessero scritto già Sharo Gambino, Luigi Malafarina e poi Enzo Ciconte che con “Ndrangheta dall’Unità a oggi” (Laterza, 1992) accese i riflettori nazionali sul fenomeno mafioso calabrese.

Nello stesso anno del libro di Ciconte Sellerio pubblicava “L’anomalia selvaggia” (riferita al fenomeno mafioso) di Pasquino Crupi, uno dei più grandi studiosi di letteratura meridionale del secolo scorso e dell’inizio del terzo millennio. Salvo qualche rara eccezione “l’ondata di libri” sulla mafia non è riuscita ad andare oltre quanto già era stato scritto e bene, ma soprattutto continua ad avere la lacuna del non saper spiegare perché al Sud (Sicilia, Campania e Calabria) c’è la mafia: come poterla combattere, con la cultura, la scuola, l’economia, con una maggiore presenza dello Stato.

L’ondata si è limitata, e si limita, alla denuncia, a decrittare scopi e metodi, a recintare il fenomeno nelle “terre di mafia”, terre dove si avverte il bisogno di altro, oltre ai Festival di libri sulle mafie (“Trame” a Lamezia Terme) che si svolgono con propensioni di tipo coloniale, visto i personaggi invitati, alcuni tra l’altro carichi di pregiudizi neppure nascosti bene come nel caso di Antonio Padellaro, giornalista  che nella prefazione recente ad un libro di Gianni Speranza, ottimo sindaco in passato di Lamezia Terme, ha scritto: “Confesso che qualche pregiudizio nei confronti dei calabresi lo nutrivo: mi apparivano abitanti di un mondo lontano, inospitale, indecifrabile, da cui tenersi prudentemente a distanza. Poi ho conosciuto Gianni (Speranza nd.r) …”.

E meno male che Gianni c’è…se è riuscito a cambiare il pregiudizio di Padellaro.

 


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